Il ritorno al mondo mi spaventa, sotto numerosi punti di vista. Ma dato che, a quanto pare, sta per diventare un passo inevitabile, ho pensato di affrontare il problema guardandolo dritto in faccia.
Stamattina sono uscita di casa verso le 10 e, invece di dirigermi verso sud andando lungo il naviglio come avevo quasi sempre fatto a partire dall’inizio della fase 2, mi sono incamminata con tutta l’intenzione di arrivare al Duomo. Credo fosse un rito per cominciare a fare spazio nella mia mente all’idea che tra due giorni la tanto conosciuta direttrice sud-nord dovrà tornare in qualche modo a far parte della mia quotidianità.
Appena ho svoltato l’angolo della piccola via dove sta la mia casa, le strade erano piene di gente. Tutta legittimamente in giro, ciascuna con il proprio motivo, la maggior parte con la propria mascherina. Alcuni la tenevano posizionata sotto il mento, a ben esplicitare il menefreghismo verso le regole e verso gli altri. Nel giro di poche centinaia di metri avevo già sarcasticamente rimproverato un uomo sui 45 anni che evidentemente si sentiva sollevato dall’obbligo, che noi poveri stronzi siamo tenuti a rispettare, di coprire naso e bocca, e un vecchio di oltre 70 anni che, finito di fumare la sua sigaretta ed espirando nell’aria fumo e germi, aveva ben pensato di lanciare il mozzicone sulle mie gambe. Al mio sguardo basito di rimprovero (n.d.r. nelle ultime settimane ho ripassato “l’espressione basita” grazie alle puntate di Boris su Netflix) il vecchio ha avuto il coraggio di rispondere con un simil-esasperato “Ho chiesto scusa!” a cui è seguito il mio poco educato “Ma vaffanculo, coglione!”.
Le cose insomma non si mettevano benissimo fin dall’inizio del mio percorso. Proseguendo, mi sono concentrata sull’ascolto dell’audiolibro “Trans Europa Express” e dato che Rumiz stava raccontando della meraviglia che può nascere dall’incontro tra persone diverse da noi ho cominciato a riflettere sulla necessità di alzare il livello di tolleranza verso “l’altro”, per permettermi di vederne la ricchezza. Certo, nel contesto di un viaggio in Carelia sarei probabilmente più ben disposta che durante una passeggiata in Corso San Gottardo a Milano nel bel mezzo di una pandemia ma mi sono anche detta: “Questo è quello che passa il convento quindi cerca di cominciare da qui”. E ho provato, non senza difficoltà, a guardare gli altri con maggiore benevolenza, o a tratti a non guardarli affatto. C’è da dire che man mano che avanzavo verso il centro, le strade si svuotavano lentamente e, all’altezza delle colonne di San Lorenzo, la densità delle persone intorno a me era decisamente tollerabile. Arrivata alla fine di via Torino, nel pieno rispetto dei dettami della mia religione che mi impone di “non andare mai in centro il sabato dopo le 12”, ho sentito il bisogno di silenzio e, spento Audible, mi sono infilata nella chiesa di San Satiro. La quiete di quel luogo, che entrando offre una meravigliosa illusione ottica, era in netto contrasto con il rumore che mi aveva assordato le orecchie fino a poco prima, non solo per l’audiolibro sparato negli AirPods e per lo sferragliare dei tram ma soprattutto, l’ho notato uscendo poi dalla chiesa, per colpa della musica che il ristorante dall’altro lato spara regolarmente sulla strada ad altissimo volume. Rimpiangeremo il silenzio dei mesi passati, tanto più se saremo costretti di nuovo ad ascoltare la trap a palla per le strade della città.
Arrivata in Duomo e realizzato che è ancora chiuso al pubblico, mi sono diretta verso il castello sforzesco. Volevo rientrare a casa facendo il giro largo e passando da Sant’Ambrogio. Lungo la strada mi sono imposta di abbattere un’altra barriera psicologica molto alta per me e, all’incrocio tra via San Giovanni sul Muro e via Meravigli, ho ordinato un caffè dalla vetrina di un locale dove lo scorso dicembre avevo bevuto un annacquato Negroni sbagliato prima del concerto di Einaudi. Il caffè, anche servito nel bicchierino di carta, aveva esattamente il sapore che avevo paura di affrontare: la riscoperta di un gesto che apparteneva ad una vita diversa.
Proseguendo sulla strada del ritorno sono arrivata alla basilica di Sant’Ambrogio, che ha sempre la capacità di stupirmi per la sua bellezza semplice. All’interno, un gruppo di persone capeggiate da quello che credo fosse il parroco stava decidendo come disporre i fedeli alla messa dell’indomani e dentro di me mi sono sorpresa di quanti giovani formassero quel capannello distanziato di persone interpellate per votare, con alzata di mano, l’aggiunta o meno di sedie lungo le navate.

Uscendo dalla basilica, mi sono voltata per fotografarne la facciata e il sagrato deserto ma, mentre scattavo, una bimbetta continuava a correre avanti e indietro entrando nell’inquadratura. Dopo pochi secondi ho realizzato che la sua spensieratezza era forse la cosa più sorprendente all’interno di una foto vista e rivista miliardi di volte in miliardi di formati.
Soffermandomi con lo sguardo sulla piccola, ho iniziato a parlare con la sua tata, Lidia, che si rivolgeva alla bimba e al fratellino in spagnolo. Prendendo coraggio, Giulia (se pronuncia Julia en español, mi ha informato lei stessa) si è avvicinata e ha cominciato a farmi un articolato discorso sulle sue due tate, sulla scuola, sullo spagnolo e sull’inglese e sul perché suo fratello volesse salire di nuovo sul passeggino (Perché lui è piccolo, mentre io sono grande!). Indossava una coloratissima mascherina a fiori e per parlare con lei mi sono accucciata, così da essere alla sua altezza. Giulia ha teneramente preso la mia stessa posizione. Incurante del dolore alle ginocchia che provavo dopo pochi minuti, sono stata rapita dai racconti semi incomprensibili di una bambina di 3 anni, e mi sono ritrovata impressionata (oltre che dal reddito ipotetico dei suoi genitori che possono permettersi due tate e, con tutta probabilità, un appartamento in zona Sant’Ambrogio), dalla sua capacità di raccontare ad un adulto mai visto prima fatti semplici della sua vita fatta di tanto tempo in casa “Per colpa di questo maledetto coronavirus”, il tutto come se fosse la cosa più naturale sulla faccia della terra. Ho pensato insomma che questo incontro chiudesse perfettamente il cerchio di una passeggiata iniziata con distacco rabbioso verso il mondo degli adulti. Giulia e i suoi racconti hanno riaperto un piccolo spiraglio sulla persona che vorrei essere – si ok, giovane e graziosa, ma soprattutto curiosa e senza pregiudizi.
Ok, senza TROPPI pregiudizi, dato che ne ho alcuni a cui sono profondamente affezionata e che proprio non vorrei mollare. E forse più che curiosa, sarebbe appropriato dire “aperta” perché, per rubare le parole a Rumiz “meglio raccontarsi, offrire qualcosa di sé e della propria storia perché il dialogo diventi un baratto di primizie”.