“Avremo un po’ di cose da raccontare”*

Quando mi sono alzata dal letto domenica mattina il mio corpo era parecchio dolorante. Di primo acchito ho dato la colpa alla lunga notte in cui avevo aspettato invano che il sonno mi regalasse un po’ di quiete, ma dopo poco ho cominciato a riordinare i pezzi. Sentivo le spalle indolenzite e le mie caviglie erano costellate di lividi scuri e abrasioni rossastre che ancora bruciavano. E allora ho capito. Ho capito che spesso prendo decisioni totalmente prive di buon senso e che negli ultimi tempi, a quanto pare, ho completamente smesso di pensare alle conseguenze delle mie azioni.

Sabato avevo accettato la proposta di un’amica di andare a pattinare lungo il naviglio di Bereguardo, non curandomi affatto del mio livello di principiante né tantomeno dei 40 km del percorso. Aggiungiamo che avrei usato per la prima volta dei pattini nuovi e il quadro è completo. Anzi, quasi completo, perché alla fine ho fatto tutti e 40 i km previsti (molti dei quali controvento perché c’è da dire che quasi mai la vita mi rende le cose facili). Salite, discese e deviazioni comprese. E il punto vero è che sono molto felice di averlo fatto, perché mi sono riempita gli occhi di un paesaggio splendido e ho lenito un po’ il cuore grazie ai molti sorrisi che ho incrociato e restituito.

Lungo il naviglio di Bereguardo

Non paga della sgambettata e nonostante i dolori, i lividi e le escoriazioni, domenica mattina al risveglio sono salita in macchina piuttosto presto per fare una facile passeggiata in montagna con un paio di amici. L’idea era sgranchire le gambe e godersi un po’ di fresco. Ma nemmeno in fatto di montagna posso ritenermi un’esperta e, complice la notte insonne e il mal d’auto, al momento di imboccare il sentiero pensavo solo a respirare e a mettere un piede davanti all’altro con ritmo regolare. Pochi chilometri più avanti e 400 metri più in alto, mentre stavo risalendo un pendio aggrappandomi alla roccia con le mani per non precipitare, abbiamo capito che quel sentiero evidentemente non era quello che avevamo previsto di percorrere ma che ormai era troppo tardi per tornare indietro. L’unica possibilità era proseguire sperando che la difficoltà del percorso non aumentasse ulteriormente e che in vetta avremmo finalmente saputo orientarci. Nel frattempo le calze sfregavano senza sosta sulle bruciature del giorno prima, che ingenuamente non avevo pensato di proteggere in alcun modo.

Quando siamo arrivati in cima e abbiamo visto in lontananza il rifugio che era la nostra meta originaria, è diventato evidente che avessimo allungato la strada di diverse ore e ho perso le speranze di arrivare. Troppo lontano, troppo difficile, e io ero oggettivamente senza forze. Ma poi la strada si è fatta più dolce, il paesaggio maestoso, il passo più svelto e in poco meno di un’ora ci siamo ritrovati ai piedi della cima del rifugio. A quel punto, vuoi davvero rinunciare? Il buonsenso avrebbe detto “si”, rimandando quella meta ad un prossimo tentativo. La mia testa, che ne è totalmente priva, ha ignorato il fuoco alle caviglie e l’ora tarda e si è incamminata per l’ultima salita. 40 minuti dopo ero seduta, stremata, ad uno dei tavoli del rifugio. Ed ero molto felice di esserci arrivata, perché se avessi rinunciato a quel percorso difficile e stancante, non avrei goduto di una vista meravigliosa e forse non mi sarei nemmeno concessa quella grappa che ha sciolto un po’ di nodi e mi ha fatto ridere. 

La vista dal sentiero estivo che da Culmine San Pietro porta ai Piani di Artavaggio

Ma allo stesso tempo mi sarei risparmiata di aggravare le escoriazioni alle caviglie, che sono certa diventeranno cicatrici evidenti perché la mia pelle è come me e porta con sé i segni di ogni esperienza vissuta. E probabilmente questa notte riuscirei a dormire invece di scrivere questi sproloqui alle 3 del mattino, incapace di prendere sonno per la seconda notte di seguito per colpa di dolori diffusi e del tentativo di autoconvincermi della bellezza di vivere la vita con quel po’ di incoscienza che ti tiene lontano dalla “cosa migliore”.

In sostanza, se avessi più buon senso e scegliessi di proteggermi dalle mie stesse inclinazioni, ora forse dormirei invece di curarmi le ferite, ma allo stesso tempo mi sarei persa la meraviglia del percorso che, per ora, mi sembra sia valso ogni segno indelebile che porto addosso. 

Spero tanto di continuare a pensarlo anche domani. 

*liberamente ispirato da questo dialogo de “Le tre del mattino” di Gianrico Carofiglio:

“Avremo un po’ di cose da raccontare…” Questa frase mi diede una fulminea tristezza. Immaginare che avremmo raccontato quello che ci stava succedendo implicava che tutto fosse finito, invece io non volevo che finisse. Volevo restare sospeso nel punto in cui ero, sulla linea di confine, nel punto esatto fra prima e dopo.”

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