Affinità-divergenze fra sogno e realtà 

Premessa

Lungi da me il voler scrivere di viaggi, ma i pensieri che voglio raccontare nascono innegabilmente da ciò che ho vissuto nei 14 giorni trascorsi a Cuba ad agosto. Per ridurre al minimo il rischio di invadere un campo non mio, ho ordinato le tappe del viaggio a caso. 

E si, a Cuba ad agosto fa molto caldo. 

Santa Clara. 

“C’è, se vai ben oltre l’apparenza, un’impossibile coerenza che vorrei tu ricordassi almeno un po’…” *

La quintessenza dell’orgoglio cubano. La celebrazione di un uomo che ha compiuto un’impresa che aveva tutti i numeri per fallire. Il monumentale mausoleo del Che, e il museo che ne racconta le gesta e ne tramanda le parole. Ma soprattutto, la celebrazione per indiretta persona del carisma di Fidel e della sua capacità di guidare le masse. 

Visitare Santa Clara ha significato fare un tuffo nella mia adolescenza, quando mi sentivo strattonata da scelte assolute che non sapevo abbracciare. Mi ha riportato al verso dei CCCP “Affrettati, fa’ presto, il gioco volge al termine, Punta sul nero, punta sul rosso, Punta di più, il gioco è fatto, La posta sei tu” copiato a mano e appiccicato all’armadio per ricordarmi dell’ineluttabile scelta da prendere al bivio delle università, e a quel “per fare quel lavoro devi essere un po’ put***a” che anziché spaventarmi mi aveva rassicurata, perché io non sapevo cosa volessi essere, ma sapevo che non avrei mai retto una immutabile e faticosa coerenza. 

Santa Clara ha per me amplificato in modo assordante il divario tra una vita che trova il proprio senso in uno scopo preciso e una che cerca di trovare il senso guardando solo il proprio orizzonte. Ma Santa Clara non chiarisce, o almeno non lo ha fatto a me, quale sarebbe la scelta giusta. Soprattutto perché è difficile osservare Cuba e non chiedersi dove sia finito quello scopo, una volta salito al potere. 

Il Mausoleo di Che Guevara, Santa Clara

Trinidad

“L’America, l’America ha paura, altrimenti non si spiega come faccia a vedere in uno Stato in miniatura questa orribile minaccia…” *

La maestra di una scuola primaria mi ha mostrato con grande orgoglio il lavoro dei suoi alunni, che avevano scritto in un lavoretto le parole di un discorso di Fidel sull’istruzione. “La educación es el instrumento por excelencia en la búsqueda de la igualdad, el bienestar y la justicia social…”. 

Un medico si è interessato alla terapia contro il colesterolo della mamma di Luca, consigliando di sostituire le statine con la moringa, di cui ci ha anche scritto una ricetta, con tanto di dosi, frequenza, farmacia dove acquistarla e il suo indirizzo email per scrivergli in caso di qualsiasi dubbio. 

È stato facile per me ridere della moringa, con la supponenza di chi si crede nata nella parte evoluta del mondo, convinta per partito preso che l’istruzione e le cure mediche dell’occidente siano all’avanguardia e quindi per forza migliori. 

Ma a Cuba il tasso di alfabetizzazione arriva al 100% e l’aspettativa di vita a 79 anni, solo di poco inferiore a quella italiana. L’università a Cuba è gratuita mentre a Milano se mandi un ragazzo alla scuola pubblica rischi di essere accusato di comprometterne il futuro. E a pensarci con onestà, quanti dei nostri malanni sono collegati allo stile di vita malsano che siamo costretti a tenere in nome della “libertà” del nostro sistema economico?

Ho fatto fatica a concedere a questi fatti la possibilità di incrinare la convinzione di vivere nella migliore delle possibili realtà, e a lasciare spazio al dubbio che le sovrastrutture che abbiamo creato siano talvolta fuorvianti, per non dire inutili. 

Rimango convinta che i cubani dovrebbero poter avere accesso alle cure più all’avanguardia e alle tecnologie più moderne, ma nella realtà dei fatti non siamo proprio noi ad impedire che abbiano quanto meno le farmacie piene, grazie all’assurdo embargo che vieta l’ingresso nel Paese di beni di prima necessità?

Maricelis Ortiz Benitez

Viñales

“C’è un profumo inebriante che dall’Africa alle Ande ti racconta di tabacco e caffè.” *

Nedel ambisce a garantire una vita dignitosa a sé e ai propri figli. Nulla più. Nessun fronzolo, nessuna aspirazione ad avere “di più”. Prepara la colazione per gli ospiti e li aiuta ad organizzare le escursioni. Quando non è impegnato con i turisti, lavora nei campi. Ne più ne meno quello che fa ogni altro abitante di Viñales, 

Rosa è felice della sua vita con Nedel. Molto felice. Ma allo stesso tempo, mentre stendevamo il bucato in terrazza, mi ha confessato di capire sua figlia, che invece sogna di raggiungere il fidanzato in Florida. “Qui non ha futuro, come posso impedirle di provare?”. 

A Viñales ho osservato fuori da me la dualità della pulsione che mi spinge da un lato alla ricerca continua di qualcosa di diverso, nell’astratta ambizione di conoscere un altro e un altrove dove sentirmi al mio posto, dall’altro alla cura di quanto ho costruito nel piccolo perimetro che sono in grado di occupare nella vita. 

Fino ad oggi in me ha sempre prevalso la prima forza, ma a Viñales ho dovuto ammettere che lo straniamento continuo è diventato tremendamente faticoso e mi sono ritrovata a osservare con ammirazione chi è riuscito a raggiungere una serenità fatta – anche – di relazioni prossime e accudenti, in un concetto di famiglia allargata che arriva a comprendere un intero villaggio. E, in un doloroso ribaltamento totale di prospettiva, ho scritto nero su bianco che io, adesso, ho voglia di radici. Mie radici. 

Una strada di Viñales al tramonto

L’Avana

L’illogica allegria. 

L’Avana è una città triste. 

Non poeticamente malinconica. 

Forse malinconicamente poetica. 

Semplicemente, e a buon diritto, triste. 

Le auto d’epoca dai colori sgargianti cariche di ragazzi e ragazze che suonavano il clacson a ritmo di salsa nel goffo tentativo di trasmettere spensieratezza in realtà si lasciavano dietro una scia di perplessa indifferenza. Così come la musica per i turisti ubriachi di daiquiri al La Floridita si è spenta in un silenzio assordante appena ci siamo chiusi alle spalle la porta del locale presidiata da energumeni in una divisa ormai consunta. 

E mi sono ritrovata a pensare che il divario tra lo storytelling delle pagine di promozione turistica de L’Avana su Instagram e la vita reale della città è altrettanto ampio di quello tra il racconto favoloso della Milano Place to Be e la crescente difficoltà di sentirsi parte di una città sempre più gentrificata ed economicamente inarrivabile. E badate che la mia resistenza a dire qualcosa di negativo su Milano ha la stessa veemenza del pianto dei cubani al funerale del Lider Maximo, chiedete a Luca.

I giorni a L’Avana hanno esacerbato la mia idiosincrasia verso i racconti edulcorati e la stupida illusione che acquistare la medesima linea di make up ti renda parte di una community. 

L’Avana mi ha costretto ad un bagno di realtà, mostrandomi quanto siano preziose le situazioni difficili ma reali. E mi ha mostrato quanto l’unica community che valga la pena di coltivare è quella con le persone che hanno voglia – e ti fanno venire voglia – di smussare gli spigoli, nonostante o forse proprio a causa delle rispettive fragilità, idiosincrasie e malumori mattutini. Anche senza like. 

Dalla finestra di un piccolo caffè a L’Avana

Cayo Santa Maria

Ovvero la segregazione della vita moderna. 

Mentre ero sul volo per L’Avana, ho ascoltato un episodio del podcast di Yoani Sánchez in cui la giornalista raccontava della crescente frustrazione dei cubani per l’impossibilità di accedere ad alcune spiagge dell’isola. Il concetto non mi era per nulla chiaro, nemmeno quando il tassista che mi ha portato a Viñales mi ha liquidato con un brusco “Noi cubani non possiamo entrare a Cayo Jutias” senza aggiungere altro. Si è chiarito un po’ grazie ai racconti di Maria che nel frattempo tagliava un delizioso mango per la colazione. Ma è diventato lampante osservando i casermoni di Caibarién poco prima del Pedraplén, la lingua di terra che porta a Cayo Santa Maria i turisti in taxi e i lavoratori in autobus scassati. 

Qui vivono i lavoratori del Cayo. Se ci lavorano per 10 anni, possono tenere la casa” mi ha detto il tassista come se fosse un privilegio straordinario. Abbiamo attraversato il Pedraplén, che termina con un casello e una dogana, dove gli unici documenti controllati sono stati quelli dell’autista cubano. 

E allora tutte le scritte “Patria o Muerte” che avevo incontrato lungo il viaggio cominciavano a perdere di senso, perché l’impressione è che il capitalismo abbia comunque avuto la meglio, in modo subdolo ed inesorabile. Se intere fette di territorio sono in concessione alle grandi catene alberghiere internazionali, che decidono chi, come e a che prezzo può entrare, come possiamo dire che la rivoluzione abbia vinto? 

Cayo Santa Maria

Abbiamo delegato a Cuba il sogno di una società più giusta e rispettosa delle esigenze dell’essere umano. Ed è innegabile che Maria mi abbia zittito, mentre serafica mi chiedeva se io fossi pronta a tornare alla mia routine quotidiana, al lavoro che permea gran parte del mio tempo per concedermi la libertà di fuggire un paio di volte all’anno. Lei, diceva, non si sentiva proprio di invidiare la cugina fuggita a Miami perché, dal suo punto di vista, in termini di condizioni di vita quotidiane aveva perso.

E allora, forse, Cuba ha in parte realizzato quel sogno che le abbiamo sempre attribuito; nonostante tutto offre la possibilità ai propri abitanti di esprimere all’ennesima potenza le qualità migliori dell’essere umano: l’empatia, la solidarietà e la convinzione che, per poter dire di stare bene, si debba stare bene un po’ tutti.  

E allora, forse, il filo rosso che ho intravisto tra “noi” e “loro” sta proprio nella capacità dell’essere umano di recuperare con creatività i propri spazi liberi, all’interno di noi stessi e nelle relazioni che danno un senso allo nostra esistenza. E sta anche nell’istinto di sopravvivenza, che ci insegna a sgusciare come anguille, provando a sopravvivere alla nostra realtà con serafico distacco.  

*Cohiba, Daniele Silvestri

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