Le mie notti (quasi) bianche

Non esiste uno spartiacque che separi la “me” di prima dalla “me” dopo un viaggio. Dalla Norvegia sono tornata con le mie vecchie scarpe da trekking in valigia, nonostante il fango e la pioggia abbiano provocato delle scollature evidenti nella suola. Quest’anno le ho riportate a casa perché ho creduto che ci fossero le condizioni per provarci. Magari, speravo, la cura di un buon calzolaio può fare miracoli anche su scarpe malconce. A Nora è successo, ho le prove. In valigia avevo portato anche delle scarpe nuove, in goretex e bellissime che, purtroppo, si sono rivelate leggermente grandi. Mi hanno salvato in più di un trekking, ma in quelli più impervi il vecchio ha vinto sul nuovo, malgrado le mie speranze. La dura realtà, però, è che il vecchio è troppo malandato e il nuovo non è adatto, quindi dovrò cercare una terza via, se voglio continuare a camminare fino ad arrivare in vetta.

Non esiste uno spartiacque che separi la “me” di prima dalla “me” dopo un viaggio, ma la Norvegia è stata uno spartiacque tra condizioni della mia vita radicalmente diverse, per motivi in parte fuori dal mio controllo. Esiste un prima e un dopo Capo Nord. Banalmente, prima la mia vita viaggiava su binari molto conosciuti. Dopo, è iniziata una fase di cui devo imparare le coordinate da zero per capire come muovermi. Sono entrata in quel limbo incerto che i più razionali dicono durare circa sei mesi, un tempo apparentemente congruo per, ad esempio, abituarsi ad un nuovo lavoro, innamorarsi o dimenticare un amore. Sei mesi per imparare a stare in piedi su gambe nuove, in pratica. Chissà se lo stesso tempo vale anche quando capitano alcune di queste cose insieme.  “Sei capace di tutto” dice chi mi conosce. E hanno ragione. Anche se ho paura, tendo a non tirarmi indietro quando qualcosa mi incuriosisce. “Sei capace di tutto”, dicono. Ma questo viaggio mi ha ricordato che se faccio qualcosa di pauroso con qualcuno che mi tiene la mano, sono felice. E dormo senza incubi.

Non esiste uno spartiacque che separi la “me” di prima dalla “me” dopo un viaggio, però è curioso che in Norvegia si sia condensato il microcosmo della mia intera esistenza in dieci giorni, come un film veloce che ha fatto il riassunto di tutte le cose più sagge e quelle più avventate vissute nei miei quarantatré (ancora per poco) anni. Ho camminato, ho contemplato questo bellissimo mondo, ho riso tanto – anche mentre imprecavo arrampicandomi sulle rocce bagnate dalla pioggia battente e sferzate dal vento gelido – ho anche versato qualche lacrima, ovviamente. Ero circondata da coppie affiatate, ho trovato il mio spazio per stare in piedi, ho avuto una sponda in estranei che sono diventati presto facce amiche, e ho puntato sulla combinazione con le probabilità di successo praticamente rasenti lo zero. Tutto come da copione. Mi sorprende sempre come all’interno di un gruppo di sconosciuti in viaggio si creino le dinamiche più belle del branco, fatte di comunanza, solidarietà, tolleranza, supporto e protezione reciproca. Anche di scazzi, ma probabilmente sono stata, come sempre, molto fortunata a capitare con persone in grado di aprirsi all’altro, e di rendere a me più facile farlo. Torno quindi dalla Norvegia con un’ammirazione profonda per i miei compagni di viaggio, che mi hanno interessato e incuriosito come pochissime delle persone che incrocio quotidianamente nella mia esistenza sanno fare. E, forse, anche io ho saputo avere occhi ed orecchie diversi, per apprezzare ed osservare gli altri. Finalmente.   

Non esiste uno spartiacque che separi la “me” di prima dalla “me” dopo un viaggio, ma se proprio voglio cavalcare l’onda dei buoni propositi di settembre, quello che mi auguro è di portare con me il più a lungo possibile il paio di occhi e di orecchie che ho ritrovato tra Capo Nord e le Lofoten.

Vorrei imparare le coordinate della mia nuova esistenza con il cuore un po’ più aperto. Vorrei provare a darle una forma diversa, senza troppe maschere e sicuramente con meno paure. Una forma più simile a quella delle notti in cui dormo tranquilla e senza incubi, magari davanti ad una finestra gigante che affaccia su un fiordo magico.

Ne riparliamo a gennaio

Se si potesse, salterei dicembre a piè pari.

Questo mese per me ha pochissimi lati positivi. Gli unici giorni che salvo sono quelli intorno a Natale, che passo con la mia famiglia in montagna. 

Tra le cose che odio di più di questo periodo ci sono queste tre. 

La cena di Natale di studio. Ho passato la mia vita professionale a cercare di schivare l’incombenza di organizzare la festa di Natale aziendale, affibbiata al dipartimento marketing perché nessun avvocato capisce veramente cosa facciamo e solitamente siamo “quelli simpatici”. Io no, e infatti la cena di Natale l’hanno sempre organizzata gli altri membri del dipartimento che però nel 2024 si è ridotto in maniera drastica. Riesco ancora a ritagliarmi un ruolo marginale nel gioco, ma non posso esimermi dal partecipare. A onor del vero, ho la fortuna di avere come colleghi persone piacevoli. Ma non posso più assumere una quantità di alcol sufficiente per pensarlo un evento a cui andare volentieri. Niente di personale. 

Il traffico, per citare Johnny Stecchino. Tra pochi giorni, Corso Matteotti si intaserà per interminabili ore di una lunghissima fila di macchine immobili, guidate da autisti convinti detentori dell’arte di stare al volante e soprattutto sicuri che l’uso smodato di clacson e insulti sia funzionale allo scorrere delle auto. In aggiunta, un incomprensibile numero di persone si riverserà per le vie del centro a fare (window) shopping, costringendomi dopo il lavoro ad acrobazie e slalom tra orde di passeggiatori che si godono senza fretta le chincaglierie in vendita nel Mercatino di Natale ai piedi del Duomo. Ah, la folla. Ah, lo spirito natalizio. Il mio personale incubo.

I bilanci. Dicembre è il mese in cui si tirano le somme, in cui si guardano gli undici mesi passati e ci si accorge di non essere avanzati di molto nei buoni propositi dell’anno precedente. E’ il mese in cui i miei “ho deciso che” perdono quella credibilità che solo io ancora gli attribuisco. E’ il periodo dell’anno in cui mi ritrovo ancora una volta con il cerino corto in mano e di nuovo mi chiedo “Ma davvero?”. Perché io la lezione scelgo tuttora di ignorarla, nonostante arrivi puntuale ad ogni dicembre. 

C’è stato un momento preciso in cui ho capito che anche quest’anno era in arrivo. 

Ero a cena con amici e li ho salutati prima che mi arrivasse in mano il digestivo, a cui altrimenti non avrei saputo rinunciare. Era quell’ora intermedia in cui tornare a casa a piedi non è ancora assolutamente sconsigliato ma che necessita di un’asticella di tolleranza alla vita dello Stadera abbastanza elevata. Per i miei parametri era ok, per quelli di mia madre sicuramente no. Una volta arrivata all’altezza del parcheggio dei taxi, indecisa se saltare su uno, mi sono voltata per controllare la strada e il tram era in arrivo. C’era anche una lunga fila di taxi che, visti i tempi a Milano, sembrava un miraggio. 

In quel momento ho messo in fila le ultime mattine: mai una volta avevo dovuto correre per prendere il tram. Da giorni infatti esco di casa per andare al lavoro, compiendo i soliti rituali: il cinque a Luciano e due battute sul tempo davanti alla portineria. Una volta arrivata all’angolo con via Montegani, vedo il tram lontano qualche centinaio di metri e capisco di non dover fare il solito sprint per prenderlo. Spesso trovo anche posto per sedermi.  

Ho quindi cominciato a intuire che la lezione di dicembre è dietro l’angolo, ma che l’universo in questi giorni mi ha offerto una concatenazione di eventi positivi per ammortizzare l’appuntamento con lo schiaffo. Il tram che arriva al momento perfetto, un casino risolto nel migliore dei modi, i complimenti per la gestione eccellente di un lavoro, il calore della casa di un’amica che mi ricorda che è solo nella libertà reciproca che posso accettare qualsiasi relazione. 

L’universo mi ha mostrato che la struttura, nonostante tutto,  può reggere l’urto. 

Ma se c’è qualcosa di assolutamente fuori dalle mie corde è fare proclami di sfida. Dentro di me so quanto dicembre possa essere crudele e spietato. Quindi ho deciso che me ne sto zitta ed entro in modalità “sopravvivenza” per 31 giorni. 

Ne riparliamo a gennaio.

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Affinità-divergenze fra sogno e realtà 

Premessa

Lungi da me il voler scrivere di viaggi, ma i pensieri che voglio raccontare nascono innegabilmente da ciò che ho vissuto nei 14 giorni trascorsi a Cuba ad agosto. Per ridurre al minimo il rischio di invadere un campo non mio, ho ordinato le tappe del viaggio a caso. 

E si, a Cuba ad agosto fa molto caldo. 

Santa Clara. 

“C’è, se vai ben oltre l’apparenza, un’impossibile coerenza che vorrei tu ricordassi almeno un po’…” *

La quintessenza dell’orgoglio cubano. La celebrazione di un uomo che ha compiuto un’impresa che aveva tutti i numeri per fallire. Il monumentale mausoleo del Che, e il museo che ne racconta le gesta e ne tramanda le parole. Ma soprattutto, la celebrazione per indiretta persona del carisma di Fidel e della sua capacità di guidare le masse. 

Visitare Santa Clara ha significato fare un tuffo nella mia adolescenza, quando mi sentivo strattonata da scelte assolute che non sapevo abbracciare. Mi ha riportato al verso dei CCCP “Affrettati, fa’ presto, il gioco volge al termine, Punta sul nero, punta sul rosso, Punta di più, il gioco è fatto, La posta sei tu” copiato a mano e appiccicato all’armadio per ricordarmi dell’ineluttabile scelta da prendere al bivio delle università, e a quel “per fare quel lavoro devi essere un po’ put***a” che anziché spaventarmi mi aveva rassicurata, perché io non sapevo cosa volessi essere, ma sapevo che non avrei mai retto una immutabile e faticosa coerenza. 

Santa Clara ha per me amplificato in modo assordante il divario tra una vita che trova il proprio senso in uno scopo preciso e una che cerca di trovare il senso guardando solo il proprio orizzonte. Ma Santa Clara non chiarisce, o almeno non lo ha fatto a me, quale sarebbe la scelta giusta. Soprattutto perché è difficile osservare Cuba e non chiedersi dove sia finito quello scopo, una volta salito al potere. 

Il Mausoleo di Che Guevara, Santa Clara

Trinidad

“L’America, l’America ha paura, altrimenti non si spiega come faccia a vedere in uno Stato in miniatura questa orribile minaccia…” *

La maestra di una scuola primaria mi ha mostrato con grande orgoglio il lavoro dei suoi alunni, che avevano scritto in un lavoretto le parole di un discorso di Fidel sull’istruzione. “La educación es el instrumento por excelencia en la búsqueda de la igualdad, el bienestar y la justicia social…”. 

Un medico si è interessato alla terapia contro il colesterolo della mamma di Luca, consigliando di sostituire le statine con la moringa, di cui ci ha anche scritto una ricetta, con tanto di dosi, frequenza, farmacia dove acquistarla e il suo indirizzo email per scrivergli in caso di qualsiasi dubbio. 

È stato facile per me ridere della moringa, con la supponenza di chi si crede nata nella parte evoluta del mondo, convinta per partito preso che l’istruzione e le cure mediche dell’occidente siano all’avanguardia e quindi per forza migliori. 

Ma a Cuba il tasso di alfabetizzazione arriva al 100% e l’aspettativa di vita a 79 anni, solo di poco inferiore a quella italiana. L’università a Cuba è gratuita mentre a Milano se mandi un ragazzo alla scuola pubblica rischi di essere accusato di comprometterne il futuro. E a pensarci con onestà, quanti dei nostri malanni sono collegati allo stile di vita malsano che siamo costretti a tenere in nome della “libertà” del nostro sistema economico?

Ho fatto fatica a concedere a questi fatti la possibilità di incrinare la convinzione di vivere nella migliore delle possibili realtà, e a lasciare spazio al dubbio che le sovrastrutture che abbiamo creato siano talvolta fuorvianti, per non dire inutili. 

Rimango convinta che i cubani dovrebbero poter avere accesso alle cure più all’avanguardia e alle tecnologie più moderne, ma nella realtà dei fatti non siamo proprio noi ad impedire che abbiano quanto meno le farmacie piene, grazie all’assurdo embargo che vieta l’ingresso nel Paese di beni di prima necessità?

Maricelis Ortiz Benitez

Viñales

“C’è un profumo inebriante che dall’Africa alle Ande ti racconta di tabacco e caffè.” *

Nedel ambisce a garantire una vita dignitosa a sé e ai propri figli. Nulla più. Nessun fronzolo, nessuna aspirazione ad avere “di più”. Prepara la colazione per gli ospiti e li aiuta ad organizzare le escursioni. Quando non è impegnato con i turisti, lavora nei campi. Ne più ne meno quello che fa ogni altro abitante di Viñales, 

Rosa è felice della sua vita con Nedel. Molto felice. Ma allo stesso tempo, mentre stendevamo il bucato in terrazza, mi ha confessato di capire sua figlia, che invece sogna di raggiungere il fidanzato in Florida. “Qui non ha futuro, come posso impedirle di provare?”. 

A Viñales ho osservato fuori da me la dualità della pulsione che mi spinge da un lato alla ricerca continua di qualcosa di diverso, nell’astratta ambizione di conoscere un altro e un altrove dove sentirmi al mio posto, dall’altro alla cura di quanto ho costruito nel piccolo perimetro che sono in grado di occupare nella vita. 

Fino ad oggi in me ha sempre prevalso la prima forza, ma a Viñales ho dovuto ammettere che lo straniamento continuo è diventato tremendamente faticoso e mi sono ritrovata a osservare con ammirazione chi è riuscito a raggiungere una serenità fatta – anche – di relazioni prossime e accudenti, in un concetto di famiglia allargata che arriva a comprendere un intero villaggio. E, in un doloroso ribaltamento totale di prospettiva, ho scritto nero su bianco che io, adesso, ho voglia di radici. Mie radici. 

Una strada di Viñales al tramonto

L’Avana

L’illogica allegria. 

L’Avana è una città triste. 

Non poeticamente malinconica. 

Forse malinconicamente poetica. 

Semplicemente, e a buon diritto, triste. 

Le auto d’epoca dai colori sgargianti cariche di ragazzi e ragazze che suonavano il clacson a ritmo di salsa nel goffo tentativo di trasmettere spensieratezza in realtà si lasciavano dietro una scia di perplessa indifferenza. Così come la musica per i turisti ubriachi di daiquiri al La Floridita si è spenta in un silenzio assordante appena ci siamo chiusi alle spalle la porta del locale presidiata da energumeni in una divisa ormai consunta. 

E mi sono ritrovata a pensare che il divario tra lo storytelling delle pagine di promozione turistica de L’Avana su Instagram e la vita reale della città è altrettanto ampio di quello tra il racconto favoloso della Milano Place to Be e la crescente difficoltà di sentirsi parte di una città sempre più gentrificata ed economicamente inarrivabile. E badate che la mia resistenza a dire qualcosa di negativo su Milano ha la stessa veemenza del pianto dei cubani al funerale del Lider Maximo, chiedete a Luca.

I giorni a L’Avana hanno esacerbato la mia idiosincrasia verso i racconti edulcorati e la stupida illusione che acquistare la medesima linea di make up ti renda parte di una community. 

L’Avana mi ha costretto ad un bagno di realtà, mostrandomi quanto siano preziose le situazioni difficili ma reali. E mi ha mostrato quanto l’unica community che valga la pena di coltivare è quella con le persone che hanno voglia – e ti fanno venire voglia – di smussare gli spigoli, nonostante o forse proprio a causa delle rispettive fragilità, idiosincrasie e malumori mattutini. Anche senza like. 

Dalla finestra di un piccolo caffè a L’Avana

Cayo Santa Maria

Ovvero la segregazione della vita moderna. 

Mentre ero sul volo per L’Avana, ho ascoltato un episodio del podcast di Yoani Sánchez in cui la giornalista raccontava della crescente frustrazione dei cubani per l’impossibilità di accedere ad alcune spiagge dell’isola. Il concetto non mi era per nulla chiaro, nemmeno quando il tassista che mi ha portato a Viñales mi ha liquidato con un brusco “Noi cubani non possiamo entrare a Cayo Jutias” senza aggiungere altro. Si è chiarito un po’ grazie ai racconti di Maria che nel frattempo tagliava un delizioso mango per la colazione. Ma è diventato lampante osservando i casermoni di Caibarién poco prima del Pedraplén, la lingua di terra che porta a Cayo Santa Maria i turisti in taxi e i lavoratori in autobus scassati. 

Qui vivono i lavoratori del Cayo. Se ci lavorano per 10 anni, possono tenere la casa” mi ha detto il tassista come se fosse un privilegio straordinario. Abbiamo attraversato il Pedraplén, che termina con un casello e una dogana, dove gli unici documenti controllati sono stati quelli dell’autista cubano. 

E allora tutte le scritte “Patria o Muerte” che avevo incontrato lungo il viaggio cominciavano a perdere di senso, perché l’impressione è che il capitalismo abbia comunque avuto la meglio, in modo subdolo ed inesorabile. Se intere fette di territorio sono in concessione alle grandi catene alberghiere internazionali, che decidono chi, come e a che prezzo può entrare, come possiamo dire che la rivoluzione abbia vinto? 

Cayo Santa Maria

Abbiamo delegato a Cuba il sogno di una società più giusta e rispettosa delle esigenze dell’essere umano. Ed è innegabile che Maria mi abbia zittito, mentre serafica mi chiedeva se io fossi pronta a tornare alla mia routine quotidiana, al lavoro che permea gran parte del mio tempo per concedermi la libertà di fuggire un paio di volte all’anno. Lei, diceva, non si sentiva proprio di invidiare la cugina fuggita a Miami perché, dal suo punto di vista, in termini di condizioni di vita quotidiane aveva perso.

E allora, forse, Cuba ha in parte realizzato quel sogno che le abbiamo sempre attribuito; nonostante tutto offre la possibilità ai propri abitanti di esprimere all’ennesima potenza le qualità migliori dell’essere umano: l’empatia, la solidarietà e la convinzione che, per poter dire di stare bene, si debba stare bene un po’ tutti.  

E allora, forse, il filo rosso che ho intravisto tra “noi” e “loro” sta proprio nella capacità dell’essere umano di recuperare con creatività i propri spazi liberi, all’interno di noi stessi e nelle relazioni che danno un senso allo nostra esistenza. E sta anche nell’istinto di sopravvivenza, che ci insegna a sgusciare come anguille, provando a sopravvivere alla nostra realtà con serafico distacco.  

*Cohiba, Daniele Silvestri

Non se, ma quando.

“Devi uscire” dicevano. Ma io non ne avevo nessuna voglia. 

“Solo un aperitivo” hanno insistito. 

E finalmente una sera ho detto “ok”, anche perché il Milano Torino da sola non lo so preparare.

Non ho scelto un vestito, né mi sono truccata. Da un lato perché non credo di saper fare bene né l’una né l’altra cosa, dall’altro perché ho voglia di continuare a mimetizzarmi con lo sfondo ancora qualche tempo. Arriverà il sole, l’abbronzatura, la spensieratezza, ma quel giorno non è ancora oggi. Inoltre, c’è un grande vantaggio ad uscire con degli amici maschi tradendo lo stereotipo della femmina. 

Facciamo un passo indietro: ho ormai l’età in cui le “ragazze” la sera mettono a nanna i figli, mentre i mariti e compagni si ritagliano lo spazio per vedere gli amici. Anche questo fa sì che mi capiti più spesso di frequentare i miei amici maschi che le mie amiche femmine. 

Ma torniamo al vantaggio. Senza trucco e con vestiti neutrali, i miei amici maschi, e così gli amici maschi dei miei amici maschi, tendono a non percepirmi come un essere sessualmente definito e mi fanno rientrare nel grande calderone dei ragazzi. Questa zona grigia mi offre la possibilità di osservare l’universo maschile dall’interno, con la stessa curiosità di un’entomologa alle prese con una specie molto comune di insetti.    

Insomma, l’altra sera sono uscita e all’ora in cui normalmente vado a dormire mi sono ritrovata a chiacchierare con uno sconosciuto, poco più giovane di me, sposato, con un figlio piccolo, che quella sera avrebbe tanto voluto uscire insieme alla sua fidanzata. Che è un’altra cosa rispetto alla moglie, specifico per chi non fosse avvezzo al linguaggio dei poligami non dichiarati. Fidanzata che confessava di aver corteggiato per banale spirito di conquista. Non era “quella del formaggio”, espressione che indica la donna che riesce nell’impresa di spezzare il cuore ad un Casanova riservandogli lo stesso trattamento che lui offre alle proprie prede. Non una donna che gli avesse fatto perdere la testa insomma, solo una che aveva deciso di portarsi a letto “no matter what” e, soprattutto, senza influenza alcuna sulla propria vita ufficiale. Dopo qualche domanda divertita, posta per assicurarmi di aver inquadrato correttamente la situazione, la serata è filata fino a chiusura del locale, ho accettato un passaggio in macchina e mi sono buttata a dormire.

O almeno ci ho provato perché in realtà ho passato la notte in dormiveglia, un po’ per colpa dell’alcol, un po’ perché il cervello mi continuava a frullare, mettendo in fila tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita, con i gradi più svariati di vicinanza, che sapevo avessero tradito la/il propria/o compagna/o. E poi sono passata alle donne. Damn, la lista è importante

Lungi da me voler giudicare i comportamenti altrui. Me ne frega troppo poco e soprattutto sono l’ultima persona ad avere il diritto di farlo. Ma qualche domanda mi viene. 

Li ho incontrat* tutti io? No, mi spiace deludervi. Anche fosse, la mia, una naturale propensione ad accompagnarmi con persone di merda, è statisticamente impossibile che le mie energie quantiche siano capaci di attrarre esclusivamente la popolazione fedifraga di questa porzione di mondo. 

Se non è più questione di se ma di quando si tradisce, perché rimanete fidanzat* o sposat*? A questa domanda ho solo risposte deprimenti dal mio punto di vista (soldi, pressione sociale, paura della solitudine). In una parola, opportunismo, che, a dirla tutta, ritengo pure legittimo.

Perché il punto di arrivo di questa riflessione non è fare la morale a persone fedifraghe di cui sentirmi moralmente superiore, tutt’altro. 

La consapevolezza che quella serata mi ha regalato è che ho avuto anch’io tutto il diritto di credere alla porzione di bugie che mi è stata propinata, negli ultimi anni come in un passato più lontano. E questa presa di coscienza mi ha regalato uno scorcio di serenità, insieme a qualche elemento in più per misurare il tempo necessario per smetterla di piangere un amore finito.  

Il filo rosso dei tradimenti non ha (quasi) mai intaccato la trama della vita delle coppie, per il semplice fatto che spesso l’unico vero interesse rilevante di chi tradisce è continuare ad avere tutto, per propria massima soddisfazione. Rifilando pari menzogne ad ogni elemento dell’equazione. 

E’ consolante? No. Ma mi sembra di intuire che il segreto di chi vive bene stia tutto lì. 

Lo ripongo nel cassetto con il materiale utile per il futuro, insieme al “Ma non lo avete ancora capito che non le lasciano mai le mogli?” che mia madre mi disse già nel 2013. 

Facce nuove

Facce nuove si aggirano da qualche tempo per il condominio. Facce giovani, con pance prominenti non da birra ma da gravidanza, che in pochi mesi si sono trasformate in facce sempre giovani ma con occhiaie profonde a causa delle coliche notturne dei neonati. Passeggini per le scale, bimbetti sgambettanti in minuscoli stivali di gomma che ti salutano educatamente sotto i loro piccoli ombrellini. 

Insomma, il condominio sta cambiando forma. All’interno, quantomeno, perché all’esterno continua a conservare la sua decadenza anni 60. 

Devo però ammettere che queste giovani facce hanno portato una ventata di novità alle recenti riunioni condominiali. Non abbastanza forte per farci vincere la battaglia per il Superbonus (e forse è stato meglio così), forse sufficiente per creare un fronte di erosione di lungo periodo a discapito della vecchia guardia di inquilini, sicuramente in grado di far emergere alcuni nuovi interessanti profili umani. 

Il pasionario. Legge tutta la documentazione in anticipo, quella che nessun altro aveva capito fosse disponibile sul fantomatico portale di condominio. Arriva preparato sulle tabelle, i preventivi, le ripartizioni. Sembra il rappresentante perfetto, ma scivola sul finale litigando con l’amministratore per un bisticcio nato durante un’assemblea del 2022, che evidentemente non aveva ancora processato a sufficienza. Ci porta fuori discussione per almeno mezz’ora finché dallo schermo non li avvisiamo con malcelato nervosismo che delle loro beghe non ce ne frega un cazzo.  

La bionda. A dire il vero non sono sicura che sia bionda – io ero collegata da remoto e lei in sala quindi non potevo vederla – ma l’ho immaginata così, per dei validi motivi che vado ora ad esporre. Proprietaria di recentissima generazione, ignara degli anni di lotte intestine, si alza per parlare dopo che l’amministratore aveva illustrato un articolato sistema di suddivisione delle spese che teneva conto con equità dello storico del condominio. Si alza per parlare e contesta la suddivisione in nome di un presunto concetto di giustizia del tutto distaccato da quello di regolamento condominiale e sfondando con l’accetta i pesi e contrappesi che tengono in piedi il delicato ecosistema dei nostri rapporti. Pretende di non pagare una quota di spese a lei spettanti per legge, e la immagino rimandata con demerito al corso di diritto. Le ultime parole del suo sconclusionato discorso diventano un mugugno soffocato e io visualizzo la mia dirimpettaia che la incappuccia con un sacco di iuta e la getta fuori dalla stanza attraverso la porta di emergenza. 

Marco Mengoni. Figlio subentrato ai genitori – tornati giù a godersi la pensione – moro, riccio, bello, molto giovane, ovviamente omosessuale. Si collega su Zoom, fiduciosamente con il video aperto. Dopo un’ora apre pure una bottiglia di vino, complice l’orario. Dopo due, la bottiglia è scesa a metà e spegne la telecamera. Mi scrive su whatsapp un disperato “ma è sempre così?”. Alla terza ora di litigate, abbiamo convenuto che, senza nemmeno un Ghali da ammirare, la riunione si stava rivelando più provante della finale di Sanremo. Lui preferisce Mahmood, ma la prossima volta quantomeno ci berremo su in compagnia. 

L’assistente dell’amministratore. Bionda – davvero bionda, la vedo nello schermo – e molto carina, è un elemento entrato di recente nella squadra di quel paraculo dell’amministratore. Inizia la riunione con grandi sorrisi e scambi di sguardi complici, si capisce lontano un chilometro che i due hanno una relazione. Con il passare delle ore il viso le si accartoccia, i capelli si arruffano e compaiono delle occhiaie scure sempre più pronunciate. Mentre l’amministratore litiga con il pasionario, cerca in ogni modo di prendere affannosamente le sue parti. Quando sul finale si trova però a dover redigere il verbale e lui confonde i termini “deliberano” e “propongono”, lei quasi in lacrime urla “Non ti ci mettere pure tu”. Dallo schermo la vedo incapace di difendersi da non meglio identificate persone che la costringono ad inserire nel testo delibere approvate con una maggioranza del tutto aleatoria, creando una sorta di decreto milleproroghe in cui si affiancano la tinteggiatura delle scale e le nuove decorazioni natalizie, richiesta probabilmente fomentata da un sodale dello spirito trash del mitico portiere Luciano. 

Oltre a queste minuzie, e in continuità con la proverbiale inerzia di questo stabile, non abbiamo ancora approvato alcun lavoro concreto. 

Ma sento la speranza crescere.

Tutte le facce nuove sono determinate a puntellare la facciata del condominio prima che un pezzo di cornicione travolga i loro fragili passeggini.

E, sicuri del mio contributo al fronte comune per la lotta, questi novelli partigiani nati ai tempi dei social mi hanno, con slancio, incluso in un nuovo gruppo Whatsapp. 

Stay tuned.

Al crocevia della maturità

Eccomi qui, al crocevia della maturità, mentre imbocco con fierezza la strada verso una vecchiaia da rompicoglioni. 

Chi è senza peccato scagli la prima pietra, mi son detta da sola, ma nonostante io sappia con certezza di essere stata colpevole in passato, una cosa sento di doverla dire. Ad alta voce, come ad alta voce mi è uscito quel “adesso però togli dal cazzo il telefono” durante il concerto di Einaudi domenica sera.

La povera bionda destinataria della mia rimostranza ha provato a far scontrare due neuroni per difendere la propria posizione ma le è uscito uno sconnesso “siamo in un teatro pieno di gente”. Spiegarle che a darmi fastidio non era la gente, ma il suo cellulare perennemente acceso lungo la direttrice che andava dai miei occhi al palco mi è sembrato un inutile spreco di tempo.

Dopo questo rimbrotto, grazie all’autocritica che mi infliggo costantemente, ho realizzato di aver spesso, ai concerti, rotto il cazzo a chi mi stava dietro per fare foto e video che avrei riguardato solo per scegliere quale postare su Instagram (o Facebook, nell’era geologica precedente). Ma proprio in virtù della consapevolezza di aver peccato in gioventù, rivendico il diritto di esprimermi contro una persona – pressoché della mia età – che costringe se stessa, da un lato, a 3 lunghi minuti di immobilità mentre otto musicisti creano quel vortice di meraviglia che è Run e me, dall’altro, ad assumere posizioni contorte per osservare il palco. Se lei ritiene accettabile perdere l’esperienza fisica di un concerto, che abbia almeno pietà per la mia schiena, perdio.

Mi sono però resa conto che questa piccola scaramuccia dice più cose di me di quante ne dica della povera malcapitata.

Prima di tutto, sto perdendo i filtri. Ho sempre avuto un linguaggio diciamo colorito, ma ormai non mi crea alcuna preoccupazione combinare il registro linguistico da scaricatrice di porto con quello della professionista della comunicazione. Spesso in contesti in cui il secondo sarebbe decisamente più appropriato. 

Secondo, sto diventando rissosa. Complici l’esaltazione data dal prendere a pugni un sacco due volte a settimana e l’epica reazione di una carissima amica nei confronti di un povero fesso che durante il dj set di Paul Kalkbrenner si era permesso di staccarle un brillantino dal viso (mai, dico mai, mettere le mani in faccia ad una ragazza di Baranzate), mi trovo a rispondere d’istinto a qualsiasi provocazione. Diretta, indiretta, volontaria o meno. Spesso senza curarmi che a farla sia un tossico incazzato, un piccolo spacciatore, la bigliettaia frustrata di Palazzo Reale o una wannabe influencer fuori tempo massimo.

Terzo, sono diventata grande. E sono definitivamente entrata nella fase della vita in cui si fanno i conti con la scarsità del tempo. E allora il pensiero di sprecarlo, il tempo – per causa propria o, soprattutto, per causa altrui – diventa intollerabile. 

Il tempo è sempre più scarso e io davvero non ho più tempo – aridaje – da regalare a cose e persone che non mi restituiscono sensazioni positive. 

E forse questa situazione, questo rimbrotto come l’ho chiamato prima, racconta di me anche una quarta cosa, che in un certo senso è strettamente collegata alla precedente. Racconta che non ho più bisogno di fare i salti mortali per far diventare quadrata una cosa tonda. La cosa tonda la accetto in quanto tonda e forse, in questo momento, gli angoli non fanno proprio per me. 

Poi domani vedremo, ma – adesso – io mi sento a posto così.

Due buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai (e invece…)

Torno dal mio viaggio con uno zaino più leggero. A malincuore, lascio a Madeira le mie fedeli compagne di cammino degli ultimi 3 anni.

Io ho provato a metterci quante più toppe possibili, ma ho dovuto desistere.

Due buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai” canta De Gregori. Invece capita che le cose non si possano aggiustare, anche se lo vorresti tantissimo.

Torno da Madeira con uno zaino più leggero ma gli occhi pieni di bellezza. Avevo desiderato questo viaggio per scoprire sulle mie gambe una natura rigogliosa e potente, per ricordarmi quanto è straordinaria questa terra e per vedere un nuovo orizzonte, ed è esattamente quello che ho trovato.

Torno da Madeira con uno zaino più leggero, gli occhi pieni di bellezza, e lo stupore di quindici sconosciuti che per magia hanno condiviso spazi, cibo, chiacchiere e silenzi, sole cocente e piogge torrenziali, riso fino alle lacrime, discusso con modi garbati, camminato in gruppo e in solitaria, pianto su una scogliera, confessato amori impossibili.

Torno da Madeira con uno zaino più leggero, gli occhi pieni di bellezza, lo stupore di un gruppo di sconosciuti che diventa a suo modo famiglia, e la consapevolezza che un viaggio non risolve nulla, ma ti regala una nuova prospettiva, che alle volte è l’unica cosa di cui hai bisogno per cominciare a scrivere il prossimo capitolo. Anche se non sai ancora di cosa parlerà.

Grazie a me, per essermi concessa il coraggio di partire.

Grazie ai miei compagni di viaggio, per il semplice fatto di esserci stati e di avermi fatto sorridere.

E un grazie speciale a Veronica, anima bella che ha saputo essere, con tutta la delicatezza del mondo, il mio punto saldo in questi giorni.

In picchiata

Domenica scorsa stavo guidando la mia C3. 13 anni di onorato servizio, 180 mila chilometri portati più che dignitosamente, piccola e dalle linee morbide, sapeva di casa. La stavo guidando e sapevo che non sarebbe più successo: di lì a poco l’avrei lasciata in una concessionaria, dove cercheranno di venderla. Vero, cominciava ad avere qualche acciacco, ed erano diversi anni che mi chiedevo per quanto tempo sarebbe rimasta al mio fianco, però è difficile pensare di abbandonare una compagna fedele, lo capiscono tutti, no? 

Lo capivo anch’io fino a quando, un giorno, ho visto un’altra auto che mi è piaciuta moltissimo e ho cominciato a fantasticare su come mi sarei sentita a guidare una macchina così diversa. Ho provato a ragionare in termini di sicurezza alla guida, solidità, razionalità dell’investimento. Tutti elementi importanti, non c’è dubbio. Ma il punto è che ci ho fatto un giro in strada, e l’incastro funzionava perfettamente. Certo, aleggiavano nell’aria un certo numero di incognite: guidarla tredici minuti non è come stare insieme 13 anni, ma certe affinità le senti d’istinto, no? Come in amore, quando ti guardi negli occhi e per qualche strano motivo sai di voler passare del tempo con quella persona. 

Domenica scorsa, mentre guidavo la mia C3, mi sono chiesta quanto coraggio serva per fare qualcosa per l’ultima volta. Quando ci si lascia un pezzo di vita alle spalle. Quando si saluta qualcuno che non si rivedrà più. E mi sono detta che quel tipo di coraggio non è una cosa da tutti, perché ce ne vuole davvero tanto anche solo per ammettere che certi cambiamenti non si fanno per un reale malessere, perché una macchina è realmente arrivata al capolinea, ma perché qualcosa di diverso ci emoziona e questo, ad un certo punto nella vita, vale tutto. 

Porto con me ogni esperienza fatta insieme alla mia C3. Le sarò per sempre grata di avermi portato in giro per l’Italia, di aver affrontato con coraggio acrobatiche retromarce su strade di campagna, di non avermi giudicata mentre stonavo a squarciagola per centinaia di chilometri, di aver nascosto da occhi indiscreti fiumi di lacrime e di avermi sempre protetta, lungo il viaggio e negli incidenti di percorso. Ci sono cose e persone che ci accompagnano per lunghi pezzi di strada e avranno sempre un posto nel cuore. Qualcuno anche nella vita. Ma sono cose o persone che, in qualche modo, bisogna avere il coraggio di lasciar andare, in parte per una banalissima necessità di ricercare un nuovo che emozioni, in parte perché rimanere inchiodati alle abitudini per paura del cambiamento rischia di diventare una fonte di intollerabili rimpianti. 

Insomma, ho rischiato. Anche se l’acquisto della mia nuova macchina è stato a scatola semichiusa, in un momento in cui le placche tettoniche della mia vita stanno producendo rumori inquietanti. Ma seguo sempre l’istinto ad occhi chiusi, e anche stavolta ho accettato la scommessa. Perché certi racconti arrivano ad un capolinea, alle volte per sfinimento, altre perché semplicemente la vita ti presenta delle occasioni che, pensi, potrebbero farti sentire di nuovo viva e allora prendi il coraggio a due mani e le cogli, anche se non arrivano nel momento perfetto, anche se fanno paura, anche se probabilmente scombineranno le carte di più di un tavolo.

E forse non è un caso che questa svolta arrivi a dicembre, un mese che vorrei solo passasse in fretta, insieme al traffico impazzito in città, alla frenesia degli inutili regali di Natale, ai fiumi di gente che si riversa per le strade, ai locali sempre pieni anche il lunedì sera, ai “Cosa fai a capodanno?”. Forse non è un caso che io sia riuscita ad intravedere proprio adesso la possibilità di iniziare un nuovo racconto, chiudendone uno che era pieno di incertezze.

Come in amore, in cui a certi bivi si misura il vero coraggio di chi ama. Il coraggio di guardare in faccia la realtà, di dare un nome preciso a ciò che ti sta accadendo e, soprattutto, di non abdicare alla speranza che dopo la picchiata si possa riprendere quota per vedere di nuovo la bellezza.

La lingua batte dove il dente duole

In una assolata mattina di luglio, mi trovavo nella cucina della casa che avevo affittato nelle Marche per l’intero mese e stavo facendo colazione con latte d’avena e cereali.

Il sole splendeva. 

Mi aspettava una giornata al mare.

Al tavolo con me erano sedute alcune delle mie migliori amiche di sempre.

E mi si è rotto un dente. 

Non parlo di una leggera scheggiatura, che ne so, di un incisivo. Sì è proprio tranciato a metà un molare. Per essere precisi: il dente numero 47, arcata inferiore destra. 

Non si tratta di un evento eclatante per la sottoscritta, che si è spesso ritrovata al bancone del bar a sputare con discrezione pezzi di smalto dentale saltati dopo aver distrattamente sgranocchiato pop corn non scoppiati. E, per fortuna, non provo dolore. Si tratta sempre dei soliti due denti devitalizzati che, per la personalissima versione del kintsugi concordata con il mio dentista, rabberciamo ad ogni occasione, riportandoli alla meno peggio alla loro funzione originaria.

E’ fatto noto a chi mi conosce che io sono incapace di interventi drastici, in qualsiasi ambito della vita. Perché impiegare mesi per rimuovere con dolore le ultime parti di un dente ancora coraggiosamente attaccato alla gengiva, impiantare un perno, sperare che si cicatrizzi bene (perché, anche in questo caso, le cicatrici mica si rimarginano sempre con successo….) e poi avvitarci un dente finto, quando in dieci minuti posso limare, impastare e appiccicare qualcosa che mi consenta di proseguire la giornata come se niente fosse?  

A luglio però, trovandomi a svariate centinaia di chilometri di distanza, non potevo chiedere l’intervento tempestivo e salvifico del mio dentista. E poiché la rottura del dente aveva creato una fastidiosa punta affilata, ho sfruttato il mio canale preferenziale con lo studio medico per avere consigli. E così, una bottiglia di verdicchio più tardi, mi sono ritrovata di fronte allo specchio del bagno con una limetta per unghie in mano, pronta ad arrotondare quel fastidioso dente spezzato. 

Ovviamente, le mie amiche erano sicure che sarei finita al pronto soccorso. Ma il peggio non è accaduto e ho risolto il problema del dente affilato senza conseguenze. Apparenti.

Perché è estremamente consolatoria l’idea di riparare un oggetto riempiendo le crepe con dell’oro o sistemandolo quanto possibile perché non arrechi danno, ma ciò non toglie che, quando una cosa si rompe, semplicemente, si rompe. E insistendo ad affidarle la medesima funzione, c’è il rischio concreto che il sistema compensi stressando altre sue componenti. 

Insomma, potevo sempre ignorare di funzionare solo al 50%, e fare finta che quel sottile dolore latente che mi accompagnava ogni giorno non fosse correlato alla rottura. Ma ho dovuto prendere consapevolezza del fatto che, alla lunga, i danni dettati dall’anomalia rischiavano di essere importanti e le energie per superarli stavolta potessero venire meno. 

Ma anche di fronte al dato di realtà, andare contro il mio istinto è per me quasi impensabile. Qualcuno deve prendersi una parte di responsabilità e dare un taglio netto. Parlando di denti, sarà il dentista a prendere una decisione. Parlando della vita, dovrò adeguarmi alla realtà e trovare un mio nuovo equilibrio, non solo apparente.

Per iniziare, mi metto in viaggio.

Sulle mie gambe

Se dovessi riassumere la mia estate potrei dire che ho camminato. Dopo mesi passati a studiare e sognare la via Francigena sulla carta, è bastato il di un’amica durante una video su Zoom per avviare la macchina organizzativa del mio cervello.

Era appena finito il lockdown, i miei occhi avevano bisogno di vedere un orizzonte che superasse il palazzo di fronte e le mie gambe sognavano di muoversi libere attraverso prati e colline arse dal sole.

Con un pizzico di ingenuità e qualche grammo di coraggio, a luglio ho preparato lo zaino e preso il treno per Firenze. Lì ho incontrato due amiche, insieme siamo salite su un Regionale per Fucecchio e poi su un autobus che ci ha portato al centro di San Miniato. 

Appena scesa dal bus ho cercato per le strade indicazioni della via Francigena: sentivo la responsabilità di individuare il percorso e sapermi orientare. Avevo proposto io quel cammino ed ero probabilmente l’unica ad averlo studiato. Era un’esperienza che affrontavo per la prima volta e non avevo nessuno che potesse guidarmi.

Con lo stesso spirito di chi si prepara ad affrontare il deserto, ho costretto le mie amiche a caricarsi di almeno due litri di acqua ciascuna, a fare provviste di frutta secca e disidratata e a mangiare carboidrati per cena, spiegando che ci avrebbero dato le energie necessarie per il 25km della prima tappa. Ça va sans dire, i carboidrati sono la cosa che ha incontrato meno resistenza.

Il programma prevedeva di percorrere in due giorni i circa 40 km tra San Miniato e San Gimignano, con una tappa intermedia all’ostello Sigerico di Gambassi Terme, e considerata l’inesperienza in fatto di cammini posso serenamente affermare che sia stato un successo. Il nostro passo era ritmato, il caldo sopportabile, la pioggia ci ha sfiorato senza fare danni, abbiamo trovato un rifornimento di acqua lungo la via, il cibo è stato sufficiente. L’arrivo a San Gimignano dopo la seconda e ultima tappa è stato annaffiato di vernaccia e condito dalla prima scaramuccia tra amiche che litigano come sorelle. Una gioia per il cuore.

L’esperienza mi è piaciuta talmente tanto che ho deciso di sfruttare le vacanze di agosto per continuare il percorso lungo la via Francigena toscana, riprendendo il cammino da San Gimignano per arrivare fino a Siena. Tre tappe non eccessivamente lunghe, ma stancanti considerando le temperature cocenti di agosto.

Ho affrontato questa seconda partenza con una consapevolezza in più. Avevo un’idea più precisa di cosa mi sarei dovuta aspettare, mi ero resa conto di cosa sarebbe stato indispensabile e di cosa avrei potuto fare a meno. Avevo uno zaino più tecnico, delle scarpe super collaudate, borracce più leggere. Sapone di marsiglia che mi sarebbe servito per lavare i vestiti e le frivolezze si riducevano ad un vestito di cotone nero da utilizzare mentre pantaloncini e maglietta gocciolavano al sole. 

Perché quando sei in cammino, sono due le cose importanti da considerare: le scarpe che indossi e lo zaino che porti sulle spalle. Le prime perché decidono su quale lato camminerai del labile confine tra un trekking piacevole e le unghie dei piedi martoriate; il secondo perché sarà per giorni tutto il tuo mondo e devi sapere bene che cosa vuoi portare con te. 

So di dire una banalità affermando che la stragrande maggioranza delle persone che decidono di affrontare un cammino si preparano leggendo guide e libri, o informandosi su internet attraverso le esperienze degli altri viandanti. Qualsiasi ricerca su google vi restituirà centinaia di siti che dispensano consigli sul tipo di scarpa e di zaino, e su quanto sia fondamentale da un lato avere calzature collaudate, dall’altro ridurre il peso del bagaglio al minimo indispensabile.

E dato che questi sono due pilastri del comune buonsenso, la sottoscritta non poteva che avere esperienze peculiari a riguardo. 

Esperienza 1: le scarpe. Stavo percorrendo la seconda delle tre tappe tra San Gimignano e Siena, quella mi avrebbe portato da Colle Val d’Elsa a Monteriggioni, e avevo appena finito di elogiare le scarpe che indossavo – calzature da trekking estivo morbide e resistenti, super collaudate e praticamente indistruttibili – quando ho avuto la fastidiosa sensazione che qualcosa si fosse incollato alla suola. Guardandomi i piedi mi sono accorta che era la suola stessa ad essersi staccata per metà dal resto della scarpa e che stavo correndo il rischio di perderne un pezzo. Attingendo a tutto il repertorio di puntate di MacGyver e maledicendomi per non aver ascoltato mio padre che aveva saggiamente consigliato di acquistare delle fascette dal ferramenta (“Possono esserti utili per mille cose!”), ho usato i lacci per tenere la suola il più possibile aderente al resto della scarpa. Dopo pochi metri, ho trovato a terra sul sentiero un elastico nero, caduto provvidenzialmente da una tasca.

L’ho infilato al piede per far aderire bene scarpa e suola e ho proseguito senza intoppi fino alla meta. Una volta arrivata in ostello, ho ragionato sul da farsi e optato per recuperare un paio di vecchie scarpe da ginnastica che avevo lasciato in macchina al “campo base”, convinta che le avrei usate solo nella seconda parte della vacanza. Un “vero” viandante avrebbe corso il rischio di proseguire con l’elastico ai piedi, o forse avrebbe optato per usare le ciabatte? Forse si, ma sono molto serena nell’ammettere che nè lo spirito di sacrificio né quello di abnegazione in fondo mi sono mai appartenuti. Forse non sono una vera viandante, ma sono decisamente in pace con me stessa. 

Esperienza 2: lo zaino. Viviamo in un momento storico il cui mantra è “lasciar andare il non necessario”. In cui siamo bombardati di messaggi che ci invitano ad alleggerire le zavorre e far volare il nostro spirito verso la realizzazione di sé, passando necessariamente per il distacco da tutto ciò che ci tiene ancorati a terra. Bene, portando per giorni la mia casa sulle spalle, ho scoperto che quello che altri reputano superfluo per me può essere necessario. Ho scoperto e imparato che il commento di chi giudica superfluo un balsamo per capelli può serenamente scivolarti sulla pelle, perché nessuno tranne te conosce il peso che le tue spalle vogliono e possono sopportare.

Insomma, in questa estate di lunghe camminate, dove mi sono misurata con i chilometri, il caldo, e la strada mal segnalata, ho perso interesse per il giudizio degli altri. Ho capito che so perfettamente quali sono i miei limiti ma soprattutto che nessuno può insegnarmi cosa, quanto e quando lasciar andare. Ho scoperto di avere spalle forti che mi danno la possibilità di concedermi esperienze che altri non capiscono e ho scelto che quelle esperienza voglio godermele tutte. Ho scoperto che nella vita può sempre succedere qualcosa che non avevo previsto, ma che in fondo il mio spirito di adattamento non è così scarso come pensavo. E soprattutto ho capito che, no matter what, ci sarà sempre qualcuno a farmi da terra ferma quando il mondo mi crolla sotto i piedi. E che io prima o poi ricambierò il favore, no matter what.