Quando le scarpe sono davvero troppo strette

Ho un paio di scarpe bellissime, che sono nella mia scarpiera da anni.

Ne ho avute diverse nella mia vita ma queste, adesso, sono particolarmente importanti perché non posso portarle e mi pongono di fronte ad un dilemma.

Mi spiego. Queste scarpe, in negozio, le ho in principio snobbate, poi però le ho guardate con attenzione e mi sono piaciute tantissimo. Le ho volute anche se tutti mi dicevano che erano troppo strane, per colore e forma, e che non sarei riuscita a portarle con niente. Me lo sono detta mille volte anche da sola che forse non ne valeva la pena ma loro erano lì, e l’istinto mi diceva di comprarle. E io, chi mi conosce lo sa, ho sempre seguito il mio istinto.

E quindi l’ho fatto, le ho comprate. Ho provato a metterle una volta ed erano stupende. All’inizio la soddisfazione di averle ai piedi vinceva su tutto, ma a fine serata facevano un male terribile. Erano dure e non volevano cedere. Le ho rimesse qualche tempo dopo, perché in fatto di scarpe sono una testa di cazzo. E ancora facevano male… ma passato qualche giorno dimenticavo quelle sensazioni negative e tentavo ancora. Il risultato però non è mai cambiato. Scarpe strette erano, e tali sono rimaste.

Ho provato a chiedere aiuto al mio calzolaio, quello che mi chiama “la ragazza del mercoledì” perché da lui passo sempre nello stesso giorno, ma in certe situazioni bisogna solo arrendersi, ha detto.

Allora, adesso che è primavera e si sa, a primavera si fanno le grandi pulizie, ho deciso che queste scarpe bellissime purtroppo non fanno per me e che devo separarmene. Ma non sono ancora pronta a buttarle, tantomeno a regalarle ad un’altra. La parte più testarda di me ancora non perde la speranza. E quindi le ho chiuse in una scatola, le ho riposte lontane dalla mia vista, nella speranza che “lontano dagli occhi, lontano dal cuore“… e poi non si sa mai, magari un giorno il mio piede si restringerà e starà comodo in uno spazio che adesso è decisamente troppo piccolo.

Quel figo dell’endocrinologo

Al Policlinico di San Donato, in coda per pagare la visita di controllo con quel figo del mio endocrinologo, ascolto il dialogo tra Maria e Concetta. Maria chiede a Concetta come sta quello là, il suo ragazzo, definizione che suona vagamente stonata vista l’età delle due signore. “Ma chi? A mio marito?” Concetta risponde stupita. “No, quell’altro” ribatte sottovoce Maria. 

“Hai capito la cara Concetta….” sorrido tra me e me. 

“Ah lui” fa Concetta “sta bene, sente solo a mio marito, ma mi fa contenta.Se non c’era a mio fratello però, non so cosa succedeva. Mio fratello si che l’ha preso a mio marito e gli ha fatto ragionare per bene, mio fratello aveva ascoltato tutta la situazione che prima non sapeva niente, e ha capito bene e non si è spaventato. Che tuo figlio è sempre tuo figlio, dice, basta con questi pensieri vecchi”. 

“Giusto” dice seria Maria “basta con questi pensieri da terroni”. 

Quasi non riesco a trattenere una risata, vorrei abbracciare Maria per l’autoironia. 

“E poi adesso” continua Concetta “ha lasciato quell’altro che chissà cosa gli aveva fatto, che si comportava così male, rispondeva cattivo, diceva le parolacce a suo padre, era nervoso. Adesso ha un bel lavoro, dopo il lavoro porta le vecchiette a fare le visite per arrotondare e tutti ci vogliono bene e lo cercano, se non lo sentono, lo chiamano ‘Come stai? Dove sei?’ sempre le vecchine lo cercano, che se non era buono di cuore le anziane mica lo chiamavano, che con gli anziani ci vuole tanta pazienza. Sta con un bravo ragazzo, a Padova, in una villetta, e chiama sempre a suo padre, per tutte le cazzate lo chiama, e io sono proprio felice. Che i figli sono sempre pezzi di te, anche se fanno scelte che mica capiamo tanto.”

È il turno di Maria allo sportello e le due si allontanano continuando a chiacchierare fitte fitte, con la loro cadenza del sud.

Chiamano anche me e dopo un po’ di burocrazia lascio la sala dell’accettazione con le sue storie di malattia, amarezza e umanità. 

Salendo le scale verso il primo piano mi fermo e tiro fuori lo specchietto dal beauty, controllo il trucco e sistemo i capelli.

Il mio endocrinologo è proprio bello, penso, e non porta la fede. E, cazzo, la concorrenza al giorno d’oggi sta diventando un problema.

Cinque cose che ho imparato sugli americani

Mentre ero sul volo che mi riportava nel vecchio continente, ho pensato a diverse cose che ho imparato viaggiando in California negli ultimi due anni.

Prima cosa. Agli americani non piace l’illuminazione pubblica. Forse sarebbe più esatto dire che gli americani non concepiscono proprio il concetto di “cosa pubblica” ma non voglio addentrarmi in superficiali considerazioni di politica economica quindi mi limiterò alla sola esperienza diretta. Fatta esclusione delle grandi città, dove l’illuminazione artificiale prevarica ogni umana propensione all’oscurità notturna, nei paesi della vasta Bay Area dopo le 20 scende il buio cosmico. Per questo motivo, camminare da un punto A ad un punto B è consentito praticamente solo ai gatti o ad altre bestie a cui la natura abbia donato capacità di visione notturna. Tu umano puoi chiamare Uber che per 5$ ti fa percorrere in macchina 500 metri senza rischiare la morte.

Secondo punto. L’insegnamento di cui sopra è direttamente collegato alla seconda lezione statunitense: camminare. Say it again, camminare? Tralasciando anche per questo punto le grandi città, non tutti i paesi medio grandi sono dotati di marciapiedi. In alcuni esistono, ma sono di pertinenza della casa di fronte per cui, quando girovaghi per un centro abitato, hai sempre la sensazione che qualcuno ti stia spiando da dietro le tende con un fucile in mano pronto a rivendicare il proprio diritto a difendere la tanto amata proprietà privata. Oltre al fatto che, per chi vive in questi paesi, diventa assoluta normalità usare la macchina per fare il suddetto percorso dal punto A al punto B. Poi si ammazzano di corsa, palestra, beach volley(ball), surf, yoga, cross fit e whatever ma camminare per le cose della vita quotidiana, why would you do that? Sarà anche per questi primi due punti che il lavoro più gettonato nella Silicon Valley ormai è il driver di Uber. Alla faccia di startup e Venture Capital.

Tre. Il cibo. La California è healthy, niente da dire. Frutta e verdura abbondano in ogni supermercato e take away, una altissima percentuale della popolazione è in forma e il fast food è il ghetto dei messicani senza permesso di soggiorno. Ma c’è una cosa subdola che i californiani non riescono proprio a scrollarsi di dosso, è qualcosa che fa parte del background US, come un marchio a fuoco, un’informazione genetica contenuta nel DNA: le salse. Possono spendere $30 per mangiare un’insalata perfettamente bilanciata tra carboidrati, fibre, proteine e grassi ma se non la caricano con mix di salse e spezie che nasconda ogni ricordo del sapore vegetale, non riescono ad affrontarla. In pratica mangiano insalate che sanno, a seconda dei gusti, di chicken tikka masala o di finely chopped cilantro garlic sauce. Tasty, indubbiamente. Ma forse non si dovrebbe chiamare insalata.

Quattro. Scordatevelo, là non esiste la privacy. Troverete ovunque simpatiche insegne che vi diranno di sorridere “You’re on camera”. Ma questo non è un problema, il vero dramma sorge nel posto che la nostra cultura ci ha portato a considerare tra i più intimi in assoluto: il bagno. Per evitare ogni pericolo di sexual harassment, credo, nei luoghi pubblici e nelle aziende progettano bagni con porte con giunzioni talmente ampie che fai pipì guardandoti negli occhi e chiacchierando con la persona che sta aspettando di entrare dopo di te. Quasi un cliché per una donna. Ma si narra di individui che, per superare l’imbarazzo di espletare le naturali funzioni corporee post prandiali, vanno in bagno indossando cuffie (rigorosamente wireless di ultima generazione) e ascoltando musica a palla con l’obiettivo di creare l’illusione di una tanto agognata intimità con se stessi. Ça va sans dire che gli stitici in California hanno vita difficilissima.

Cinque. Ti salutano ovunque. Per strada o alle casse di un supermercato trovi sempre qualcuno che ti sorride e ti chiede come va. Dopo qualche episodio in cui ho iniziato a raccontare la mia disastrata situazione sentimentale fatta di uomini con vari profili di indisponibilità e la memoria di criceti con deficit di attenzione, ho capito che gli americani sono sì molto cordiali, ma anche che “How are you doin’ today?” è sinonimo di un semplice hey e che a nessuno frega un ca**o della tua vita. Esattamente come a casa.

Casa che ho lasciato 10 giorni fa con un filo di malinconia perché “e se mi perdo qualcosa mentre sono via?”. Malinconia che è sparita più o meno al check-in a Linate, se non già salendo sul taxi che mi avrebbe portato in aeroporto. Perché insieme ad ogni stranezza americana, con ciascun viaggio imparo che l’unica a cambiare realmente sono proprio io, mentre Milano, Verona, la casa, gli amici, il pub proseguono spesso con la routine di sempre, rimanendo sostanzialmente invariati.

Come il lavoro. Ah, e anche come gli stronzi. Quelli sono sicura di ritrovarli sempre presenti e irrimediabilmente identici a loro stessi.

La prima riunione di condominio

La mia prima riunione di condominio si è conclusa con discreta neutralità ma mi ha permesso di individuare alcune figure vagamente pittoresche.

Primo di tutti è il professore di storia e filosofia del liceo linguistico (sigh), sessantenne (portati molto male), un numero imprecisato di figli adolescenti a carico. Arriva leggermente in ritardo perché era “a un corso di formazione”, commenta sornione gli scazzi dei più agguerriti, non ha la più pallida idea di chi io sia e mi saluta dicendo che prima di tornare a casa va a farsi una birra. È già il mio preferito, ovviamente.

La signora pettegola. Mi fa accomodare di fianco a lei, mi sorride e dopo poco scopro che è la mia dirimpettaia e che sa esattamente chi sono e cosa faccio. Accenna un “si, la vedo che fa sempre tutte cose.” Non ho capito cosa siano “tutte cose”, ma in ogni caso tende e tapparelle non riparano da chi si fa i cazzi di tutti, sapevatelo.

Il bello del condominio. Che poi dire bello è veramente tanto, ma quel tipo che nel mucchio di anziani ti fa sentire meno sola. “Un filo di trucco potevo metterlo…” penso. Al secondo controllo vedo l’anello al dito e realizzo che si tratta del neo papà che abita due piani sotto di me. È talmente gentile che rientrando mi invita a conoscere moglie e piccoletta. Ringrazio ma “devo ancora cenare, sicuramente la prossima volta” dico. Stasera sarebbe veramente troppo.

E alla fine lui. L’ultra 40 enne single per scelta altrui, sovrappeso, con un lavoro precario. Ricorda vagamente Salvini, sputa sentenze razziste sui cinesi noncurante del distinto signore asiatico alle sue spalle (che per inciso parla un italiano più corretto del suo) suggerisce di lanciare bombe incendiarie verso i profughi ma si spaventa all’accenno di spesa di importo di circa 20€. Mentre parla ricordo di averlo incrociato più volte durante il trasloco e che in una di queste amene occasioni mi aveva detto “Allora è proprio destino!”. Ecco, speriamo di no.