“Avremo un po’ di cose da raccontare”*

Quando mi sono alzata dal letto domenica mattina il mio corpo era parecchio dolorante. Di primo acchito ho dato la colpa alla lunga notte in cui avevo aspettato invano che il sonno mi regalasse un po’ di quiete, ma dopo poco ho cominciato a riordinare i pezzi. Sentivo le spalle indolenzite e le mie caviglie erano costellate di lividi scuri e abrasioni rossastre che ancora bruciavano. E allora ho capito. Ho capito che spesso prendo decisioni totalmente prive di buon senso e che negli ultimi tempi, a quanto pare, ho completamente smesso di pensare alle conseguenze delle mie azioni.

Sabato avevo accettato la proposta di un’amica di andare a pattinare lungo il naviglio di Bereguardo, non curandomi affatto del mio livello di principiante né tantomeno dei 40 km del percorso. Aggiungiamo che avrei usato per la prima volta dei pattini nuovi e il quadro è completo. Anzi, quasi completo, perché alla fine ho fatto tutti e 40 i km previsti (molti dei quali controvento perché c’è da dire che quasi mai la vita mi rende le cose facili). Salite, discese e deviazioni comprese. E il punto vero è che sono molto felice di averlo fatto, perché mi sono riempita gli occhi di un paesaggio splendido e ho lenito un po’ il cuore grazie ai molti sorrisi che ho incrociato e restituito.

Lungo il naviglio di Bereguardo

Non paga della sgambettata e nonostante i dolori, i lividi e le escoriazioni, domenica mattina al risveglio sono salita in macchina piuttosto presto per fare una facile passeggiata in montagna con un paio di amici. L’idea era sgranchire le gambe e godersi un po’ di fresco. Ma nemmeno in fatto di montagna posso ritenermi un’esperta e, complice la notte insonne e il mal d’auto, al momento di imboccare il sentiero pensavo solo a respirare e a mettere un piede davanti all’altro con ritmo regolare. Pochi chilometri più avanti e 400 metri più in alto, mentre stavo risalendo un pendio aggrappandomi alla roccia con le mani per non precipitare, abbiamo capito che quel sentiero evidentemente non era quello che avevamo previsto di percorrere ma che ormai era troppo tardi per tornare indietro. L’unica possibilità era proseguire sperando che la difficoltà del percorso non aumentasse ulteriormente e che in vetta avremmo finalmente saputo orientarci. Nel frattempo le calze sfregavano senza sosta sulle bruciature del giorno prima, che ingenuamente non avevo pensato di proteggere in alcun modo.

Quando siamo arrivati in cima e abbiamo visto in lontananza il rifugio che era la nostra meta originaria, è diventato evidente che avessimo allungato la strada di diverse ore e ho perso le speranze di arrivare. Troppo lontano, troppo difficile, e io ero oggettivamente senza forze. Ma poi la strada si è fatta più dolce, il paesaggio maestoso, il passo più svelto e in poco meno di un’ora ci siamo ritrovati ai piedi della cima del rifugio. A quel punto, vuoi davvero rinunciare? Il buonsenso avrebbe detto “si”, rimandando quella meta ad un prossimo tentativo. La mia testa, che ne è totalmente priva, ha ignorato il fuoco alle caviglie e l’ora tarda e si è incamminata per l’ultima salita. 40 minuti dopo ero seduta, stremata, ad uno dei tavoli del rifugio. Ed ero molto felice di esserci arrivata, perché se avessi rinunciato a quel percorso difficile e stancante, non avrei goduto di una vista meravigliosa e forse non mi sarei nemmeno concessa quella grappa che ha sciolto un po’ di nodi e mi ha fatto ridere. 

La vista dal sentiero estivo che da Culmine San Pietro porta ai Piani di Artavaggio

Ma allo stesso tempo mi sarei risparmiata di aggravare le escoriazioni alle caviglie, che sono certa diventeranno cicatrici evidenti perché la mia pelle è come me e porta con sé i segni di ogni esperienza vissuta. E probabilmente questa notte riuscirei a dormire invece di scrivere questi sproloqui alle 3 del mattino, incapace di prendere sonno per la seconda notte di seguito per colpa di dolori diffusi e del tentativo di autoconvincermi della bellezza di vivere la vita con quel po’ di incoscienza che ti tiene lontano dalla “cosa migliore”.

In sostanza, se avessi più buon senso e scegliessi di proteggermi dalle mie stesse inclinazioni, ora forse dormirei invece di curarmi le ferite, ma allo stesso tempo mi sarei persa la meraviglia del percorso che, per ora, mi sembra sia valso ogni segno indelebile che porto addosso. 

Spero tanto di continuare a pensarlo anche domani. 

*liberamente ispirato da questo dialogo de “Le tre del mattino” di Gianrico Carofiglio:

“Avremo un po’ di cose da raccontare…” Questa frase mi diede una fulminea tristezza. Immaginare che avremmo raccontato quello che ci stava succedendo implicava che tutto fosse finito, invece io non volevo che finisse. Volevo restare sospeso nel punto in cui ero, sulla linea di confine, nel punto esatto fra prima e dopo.”

Mi sono rotto il cazzo*

Come si fa a dichiarare chiusa un’esperienza? Lo chiedo perché non sono mai stata molto brava a mettere la parola fine ad alcunchè. Serate, storie d’amore, viaggi. Esperienze. O rapporti con scarpe troppo strette. Perfino quando scrivo, la parte più difficile è decidere come concludere il racconto. Nella vita fisica così come in quella mentale, quando arriva il momento di girare i tacchi e proseguire per un’altra strada provo una sensazione di malinconico disagio. 

Faccio degli esempi: una serata è giunta alla fine, è stata divertente, si è bevuto, riso, mangiato e tutti gli annessi e connessi… capita che, ad un certo punto, una vocina nella mia testa dica “Bello, ma adesso tornerei volentieri a casa mia” o molto più spesso “Bello, ma adesso andrei volentieri nel locale dove ho detto che sarei arrivata mezz’ora fa”. In questi casi, lo sforzo di alzare il sedere e salutare, chiudendo quel momento di benessere in vista di un futuro potenzialmente incerto, mi paralizza e, procrastinando, arrivo al punto in cui semplicemente mi girano talmente le palle che mi alzo e me ne vado. A volte senza salutare. Un atteggiamento che, mi rendo conto ora, è una reminiscenza terribilmente adolescenziale. 

Faccio un altro esempio. Il viaggio in sè mi provoca una malinconia struggente. Non parlo della fine del viaggio. Parlo anche di quel primo passo fatto fuori di casa, quando ci si chiude la porta alle spalle e si respira il senso dell’ignoto. In quel momento, la sensazione è sicuramente di eccitazione ma in egual misura di smarrimento per quanto di conosciuto lascio alle spalle. Non solo quando sto per affrontare la traversata del globo con destinazione “altro capo del mondo”, ma, quasi in maniera più forte, nei piccoli cambiamenti di luogo. Quando ad esempio salutavo i colleghi il venerdì sera e partivo per Verona o quando la domenica pomeriggio risalivo sulla mia fedele C3 per imboccare l’autostrada direzione Milano. La fine di un’esperienza è per me emotivamente difficile e l’unico modo per affrontarla è fare un bel respiro e rendermi conto, più o meno drammaticamente, che non ho alternative. 

Lo stesso mi capita nelle relazioni. Quando conosco una persona che mi piace, tendo ad idealizzarla. Lo so, lo facciamo tutti, ma ci sono persone più furbe di me che sanno che, quando le cose non si mettono come uno vorrebbe, la strategia migliore è porre una distanza, fisica e mentale, in attesa, forse, di tempi migliori. La maggior parte delle volte quella persona finisce, giustamente, nel dimenticatoio. Altre volte, se si è molto bravi e fortunati, si riesce a trasformare il rapporto in qualcosa di diverso, scevro da aspettative e sentimenti. Ma prima di questo fantomatico nuovo inizio, vale sempre e comunque “la regola del lasciarsi” numero 1 di Carrie: “Distruggere tutte le foto dove lui ha un’aria sexy e tu sembri felice”. Che, in senso lato, vuol dire: astinenza territoriale ed emotiva da tutto quello che può ricordarti romanticamente quella persona. Invece la sottoscritta ha la malaugurata tendenza a voler salvaguardare sempre qualcosa: il rapporto, l’amicizia, il ricordo, o che cazzo ne so. Il fatto è che questo mi trascina inevitabilmente al punto in cui sull’idealizzazione prevale lo schifo perché, diciamolo, non esistono punti di mediazione tra due sentimenti che non combaciano. Se ti piaci, ti piaci. Se ti piaci “ma non ne son sicuro”, non ti piaci. Se “sei un’amica”, scappa alla velocità della luce perché quella in fondo al tunnel è SICURAMENTE la luce del treno contro cui ti schianterai senza protezioni. E non avrai nemmeno il diritto di incazzarti perché “ho sempre cercato di essere onesto con te”. (Immagino i sorrisi amari di molte di voi. Siamo tutte sulla stessa barca, anche se non consola.) 

Questo per dire che qualche giorno fa leggevo sul New York Times un interessante articolo che dissertava dei parametri che dichiarano conclusa una pandemia. L’elemento determinante a quanto ho capito, ma nulla vieta che io sia tra gli analfabeti funzionali che tanto affliggono questo Paese, è il fattore psicologico. C’è un momento in cui semplicemente la gente comincia a considerare tollerabile una determinata quantità di vittime e di conseguenza prevale la necessità di tornare alla normalità. Così è successo anche da noi, se ci pensate. Dopo il lockdown totale, si prospettava una riapertura graduale: giugno, luglio, i più pessimisti dicevano che fino al 2021 non ci saremmo più mossi. E poi nel giro di 15 giorni c’è stato lo stravolgimento: negozi aperti, uffici aperti, ristoranti aperti, locali aperti. Iper-semplificando, la gente e la politica si sono rotti il cazzo. 

E anche io oggi mi sono, nel mio piccolo, rotta il cazzo. Invece della mia solita passeggiata serale senza meta, mi sono seduta al tavolo di un locale e ho ordinato una birretta.

Sentivo che era il momento di dare un taglio ad una situazione che non mi faceva più bene.

Sentivo che non solo era ora di smetterla con l’aperitivo in solitaria sul balcone ma che non valeva più la pena di tollerare le limitazioni a cui mi ero costretta negli ultimi mesi e che rendevano confortevole una situazione che in realtà mi stava molto stretta.

Perché il prezzo credo di averlo pagato e temo che il conto non sia ancora arrivato alla fine. Ma almeno ho cominciato a tirare fuori la calcolatrice.


*dei codardi con l’amore degli altri (cit.)

Di paure e superpoteri

Il ritorno al mondo mi spaventa, sotto numerosi punti di vista. Ma dato che, a quanto pare, sta per diventare un passo inevitabile, ho pensato di affrontare il problema guardandolo dritto in faccia. 

Stamattina sono uscita di casa verso le 10 e, invece di dirigermi verso sud andando lungo il naviglio come avevo quasi sempre fatto a partire dall’inizio della fase 2, mi sono incamminata con tutta l’intenzione di arrivare al Duomo. Credo fosse un rito per cominciare a fare spazio nella mia mente all’idea che tra due giorni la tanto conosciuta direttrice sud-nord dovrà tornare in qualche modo a far parte della mia quotidianità.

Appena ho svoltato l’angolo della piccola via dove sta la mia casa, le strade erano piene di gente. Tutta legittimamente in giro, ciascuna con il proprio motivo, la maggior parte con la propria mascherina. Alcuni la tenevano posizionata sotto il mento, a ben esplicitare il menefreghismo verso le regole e verso gli altri. Nel giro di poche centinaia di metri avevo già sarcasticamente rimproverato un uomo sui 45 anni che evidentemente si sentiva sollevato dall’obbligo, che noi poveri stronzi siamo tenuti a rispettare, di coprire naso e bocca, e un vecchio di oltre 70 anni che, finito di fumare la sua sigaretta ed espirando nell’aria fumo e germi, aveva ben pensato di lanciare il mozzicone sulle mie gambe. Al mio sguardo basito di rimprovero (n.d.r. nelle ultime settimane ho ripassato “l’espressione basita” grazie alle puntate di Boris su Netflix) il vecchio ha avuto il coraggio di rispondere con un simil-esasperato “Ho chiesto scusa!” a cui è seguito il mio poco educato “Ma vaffanculo, coglione!”. 

Le cose insomma non si mettevano benissimo fin dall’inizio del mio percorso. Proseguendo, mi sono concentrata sull’ascolto dell’audiolibro “Trans Europa Express” e dato che Rumiz stava raccontando della meraviglia che può nascere dall’incontro tra persone diverse da noi ho cominciato a riflettere sulla necessità di alzare il livello di tolleranza verso “l’altro”, per permettermi di vederne la ricchezza. Certo, nel contesto di un viaggio in Carelia sarei probabilmente più ben disposta che durante una passeggiata in Corso San Gottardo a Milano nel bel mezzo di una pandemia ma mi sono anche detta: “Questo è quello che passa il convento quindi cerca di cominciare da qui”. E ho provato, non senza difficoltà, a guardare gli altri con maggiore benevolenza, o a tratti a non guardarli affatto. C’è da dire che man mano che avanzavo verso il centro, le strade si svuotavano lentamente e, all’altezza delle colonne di San Lorenzo, la densità delle persone intorno a me era decisamente tollerabile. Arrivata alla fine di via Torino, nel pieno rispetto dei dettami della mia religione che mi impone di “non andare mai in centro il sabato dopo le 12”, ho sentito il bisogno di silenzio e, spento Audible, mi sono infilata nella chiesa di San Satiro. La quiete di quel luogo, che entrando offre una meravigliosa illusione ottica, era in netto contrasto con il rumore che mi aveva assordato le orecchie fino a poco prima, non solo per l’audiolibro sparato negli AirPods e per lo sferragliare dei tram ma soprattutto, l’ho notato uscendo poi dalla chiesa, per colpa della musica che il ristorante dall’altro lato spara regolarmente sulla strada ad altissimo volume. Rimpiangeremo il silenzio dei mesi passati, tanto più se saremo costretti di nuovo ad ascoltare la trap a palla per le strade della città. 

Arrivata in Duomo e realizzato che è ancora chiuso al pubblico, mi sono diretta verso il castello sforzesco. Volevo rientrare a casa facendo il giro largo e passando da Sant’Ambrogio. Lungo la strada mi sono imposta di abbattere un’altra barriera psicologica molto alta per me e, all’incrocio tra via San Giovanni sul Muro e via Meravigli, ho ordinato un caffè dalla vetrina di un locale dove lo scorso dicembre avevo bevuto un annacquato Negroni sbagliato prima del concerto di Einaudi. Il caffè, anche servito nel bicchierino di carta, aveva esattamente il sapore che avevo paura di affrontare: la riscoperta di un gesto che apparteneva ad una vita diversa. 

Proseguendo sulla strada del ritorno sono arrivata alla basilica di Sant’Ambrogio, che ha sempre la capacità di stupirmi per la sua bellezza semplice. All’interno, un gruppo di persone capeggiate da quello che credo fosse il parroco stava decidendo come disporre i fedeli alla messa dell’indomani e dentro di me mi sono sorpresa di quanti giovani formassero quel capannello distanziato di persone interpellate per votare, con alzata di mano, l’aggiunta o meno di sedie lungo le navate. 

Giulia, davanti alla Basilica di Sant’Ambrogio. Milano, 16 maggio 2020

Uscendo dalla basilica, mi sono voltata per fotografarne la facciata e il sagrato deserto ma, mentre scattavo, una bimbetta continuava a correre avanti e indietro entrando nell’inquadratura. Dopo pochi secondi ho realizzato che la sua spensieratezza era forse la cosa più sorprendente all’interno di una foto vista e rivista miliardi di volte in miliardi di formati.

Soffermandomi con lo sguardo sulla piccola, ho iniziato a parlare con la sua tata, Lidia, che si rivolgeva alla bimba e al fratellino in spagnolo. Prendendo coraggio, Giulia (se pronuncia Julia en español, mi ha informato lei stessa) si è avvicinata e ha cominciato a farmi un articolato discorso sulle sue due tate, sulla scuola, sullo spagnolo e sull’inglese e sul perché suo fratello volesse salire di nuovo sul passeggino (Perché lui è piccolo, mentre io sono grande!). Indossava una coloratissima mascherina a fiori e per parlare con lei mi sono accucciata, così da essere alla sua altezza. Giulia ha teneramente preso la mia stessa posizione. Incurante del dolore alle ginocchia che provavo dopo pochi minuti, sono stata rapita dai racconti semi incomprensibili di una bambina di 3 anni, e mi sono ritrovata impressionata (oltre che dal reddito ipotetico dei suoi genitori che possono permettersi due tate e, con tutta probabilità, un appartamento in zona Sant’Ambrogio), dalla sua capacità di raccontare ad un adulto mai visto prima fatti semplici della sua vita fatta di tanto tempo in casa “Per colpa di questo maledetto coronavirus”, il tutto come se fosse la cosa più naturale sulla faccia della terra. Ho pensato insomma che questo incontro chiudesse perfettamente il cerchio di una passeggiata iniziata con distacco rabbioso verso il mondo degli adulti. Giulia e i suoi racconti hanno riaperto un piccolo spiraglio sulla persona che vorrei essere – si ok, giovane e graziosa, ma soprattutto curiosa e senza pregiudizi. 

Ok, senza TROPPI pregiudizi, dato che ne ho alcuni a cui sono profondamente affezionata e che proprio non vorrei mollare. E forse più che curiosa, sarebbe appropriato dire “aperta” perché, per rubare le parole a Rumiz “meglio raccontarsi, offrire qualcosa di sé e della propria storia perché il dialogo diventi un baratto di primizie”. 

Fai attenzione a ciò che desideri perché potrebbe avverarsi

Devo fare una confessione: l’ho desiderato spesso. Non che si abbattesse un’epidemia sul mondo intero, quello no. Ma ho perso il conto delle volte in cui ho pensato “Che bello sarebbe avere la possibilità di rimanere a casa. Senza dover uscire per andare al lavoro, senza le pressioni sociali che ti costringono a fare piani per i weekend (FOMO, per gli amici)… Vorrei avere il tempo per sistemare casa, fare giardinaggio (in terrazzo), riordinare l’armadio…” 

Ecco. Alla quinta settimana di quarantena comincio ad avvertire un vago senso di colpa per questi pensieri.

Perché io alla famosa legge dell’attrazione ho cominciato a crederci, più o meno dall’anno scorso, dopo che me ne ha parlato un’amica. Ammetto che all’inizio ero scettica, molto scettica. Mi sentivo incastrata in un loop da cui non trovavo via di uscita e mi ero abituata a pensare che quello fosse il mio destino. Poi un giorno mi sono detta: “Va beh… provare non costa nulla…” 

E ho cominciato a ripetere un desiderio nella mia testa. All’inizio mi sentivo ridicola, ma con il passare dei giorni era diventato un gioco divertente. Quando mi sentivo abbattuta per la mia vita sentimentale fatta di casi umani, tornavo al mio mantra: desideravo fortemente incontrare prima della fine dell’anno un ragazzo bello, divertente, spigliato, interessante. Una persona da ammirare e che cancellasse tutte le misere esperienze della mia breve comparsata su Tinder. L’ho ripetuto nella mia testa ogni giorno per mesi, tanto da cominciare a credere che fosse davvero possibile per una volta innamorarmi di qualcuno che lo meritasse. 

Solo che c’è un concetto di fondo nella teoria dell’attrazione che forse non mi avevano spiegato nel dettaglio, o che forse io non avevo ascoltato.

Non devi solo fare attenzione a COSA desideri, ma anche a COME lo desideri. Al livello di precisione del desiderio. Perchè l’universo è attento ai dettagli e se non descrivi esattamente quello che vuoi, si concede un grado di discrezionalità che, quando si tratta della sottoscritta, non lascia presagire niente di buono. 

Infatti prima della fine del 2019 l’universo mi ha portato il ragazzo bello, interessante, divertente, dolce e premuroso. Una rarità e io l’ho capito subito, innamorandomi come una pera cotta. Peccato che l’avesse già capito qualcuna prima di me. E che io mi fossi dimenticata di specificare all’universo un dettaglio. Così il suddetto ragazzo, tra tutte le meravigliose qualità, aveva anche quella di essere fedele. Fedele e felicemente sposato. 

Quindi capite bene che, una volta compresa la gravità di questa pandemia, ho cominciato a riflettere sull’intensità del mio desiderio di staccare dalla frenesia travolgente che stava invadendo la mia esistenza. A pensare a quanto fosse primario il mio bisogno di ritrovare una dimensione più umana della vita, recuperando il tempo che sentivo sfuggirmi dalle mani a causa di un lavoro che amo ma che è allo stesso tempo fortemente pervasivo. Alla necessità di imparare a porre dei limiti. 

All’inizio, anche la quarantena mi ha travolto. Nelle prime settimane mi sono ritrovata a lavorare più di 10 ore al giorno, travolta dalla bulimia tecnologica che aveva colpito chiunque si fosse trovato a concretizzare il tanto decantato smartworking. Ero costantemente connessa, tra videoriunioni, videocaffè, videoaperitivi e videocene, e avevo l’impressione che la vita di noi milanesi non fosse cambiata di una virgola, ma fosse semplicemente traslata nell’etere. 

Ma nell’ultima settimana è cambiato qualcosa e non so ancora dire se posso prendermi il merito del cambiamento, o se le circostanze mi stanno forzatamente portando a rallentare. Il lavoro ha assunto un confine, quantomeno psicologico, e quando stacco, spengo davvero il collegamento mentale ed emotivo con tutto quello che esso rappresenta. Paradossalmente, ora che “non ho nulla da fare” il mio tempo extra lavoro ha assunto un valore inimmaginabile e fare solo cose per e con me stessa è un piacere immenso. Finalmente. 

Per essere del tutto onesta, non ho mai creduto di avere una forza mentale così vasta da far sviluppare una pandemia globale che mi insegnasse quanto sia piacevole stare con me stessa. Così come non penso che quel ragazzo sia stato portato sulla mia strada solo per colpa di un dettaglio mancante nel mio desiderio. Ma se entrambe queste esperienze mi stanno insegnando qualcosa, è che ho sufficiente forza mentale non solo per immaginare il cambiamento ma soprattutto per immaginarlo in positivo. Rubando le parole di qualcuno che ha saputo esprimerlo meglio di me (qui):

Ojalá el deseo de vivir nos haga capaces de la creatividad y la determinación para construir colectivamente el exorcismo que necesitamos.

Chissà che il desiderio di vivere non ci renda capaci della creatività e della determinazione per costruire collettivamente l’esorcismo di cui abbiamo bisogno.

PS: Nel frattempo, io continuo a desiderare tantissimo, ogni giorno, di abbracciare presto tutte le persone che amo. 

La riunione condominiale – ATTO TERZO

Alle 20:50 usciamo quasi contemporaneamente dai nostri appartamenti, per dirigerci come diligenti formichine verso l’ufficio dell’amministratore di condominio. Mentre cammino lungo il vialetto, un vicino di casa che avevo confuso per il ragazzo che nelle puntate precedenti si accompagnava alla ragazza bionda (lo racconto qui), teneva il cancello aperto per un vecchio che stava uscendo in bicicletta.

E poi l’ha chiuso.

Mentre io ancora camminavo lungo il vialetto.

L’ha chiuso e si è incamminato, secondo me con un ghigno stampato in faccia.

Iniziamo bene” penso.

Lungo la strada incrocio la spilungona che abita sopra di me, camminava insieme alla signora che il primo anno mi disse “Si, la vedo che fa sempre tutte cose” (per chi se lo fosse perso…). Parlano di non so bene quale famiglia stramba e io penso bene di salutare, accelerare il passo ed entrare nel basso dove ha sede l’amministratore. Mentre, senza che fosse necessario, abbasso la testa per entrare dalla porta, sento un dialogo che promette scintille:

“C’è poca gente stasera”

“Eh sono morti in tanti quest’anno”

“Tutta vita stasera eh”, penso, e non riesco a non ridere mentre scendo le scale, sentendomi addosso almeno una quarantina di occhi che mi guardano con curiosità.

La riunione ha inizio e l’amministratore chiama uno per uno i 64 condomini. SESSANTAQUATTRO.

A parte qualche conclamato criminale che non si presenta mai, noto con piacere quattro o cinque facce nuove tra cui quella del tizio che mi ha chiuso il cancello in faccia: un ragazzo alto e sovrappeso che, scopro in quel momento, ha preso il posto del salviniano alto, sovrappeso e fidanzato con la bionda. Per il resto siamo gli stessi: il padre di famiglia carino, la spilungona del piano di sopra, la dirimpettaia impicciona, la moglie del professore, il distinto signore asiatico, l’uomo dai tratti indiani che credo di aver visto solo alle riunioni condominiali, la vecchia che è meglio non contraddire dato che conosce qualcuno che può farti passare un brutto quarto d’ora. Tutti seduti, come scolari in classe, più o meno nei medesimi posti di anno in anno.

Finito l’appello, inizia la tiritera dell’approvazione del bilancio. Tra le spese per i francobolli e quelle per il cambio della serratura del cancello, va tutto più o meno bene. Fino ai fogli dedicati alle ripartizioni delle quote acqua, che scatenano la faida tra due famiglie che si rinfacciano rispettivamente di ospitare senza residenza il figlio disoccupato l’una e numero 2 nipotini di età indefinita l’altra. Consumerà più acqua la doccia quotidiana del ragazzo o la pasta cucinata per sfamare le creature? Mentre si cerca a male parole una soluzione a questo dilemma, io mi trovo esattamente in mezzo ai due litiganti e passo il tempo della querelle a cercare, senza successo, il foglio dove si parla di ripartizione dell’acqua. Prendo in considerazione l’idea di smorzare la tensione ironizzando sul fatto che io spesso faccio la doccia in palestra e non chiedo una riduzione della mia quota, ma ricordo il cognome dei miei vicini appena in tempo per scegliere saggiamente di tenere la bocca chiusa.

Conclusa senza vincitori la bagarre sull’acqua, una delle giovani facce nuove azzarda la proposta di preventivare qualche miglioria allo stabile, cambiare gli infissi delle zone comuni o dare una rinfrescata alle parete delle scale, ad esempio. Quasi per scherzare, la solita mamma azzarda una battuta sull’ascensore e al secondo commento sul tema io trattengo a stento l’istinto di alzarmi e prenderli tutti a sediate in faccia.

Lo scontro generazionale che si apre da lì in avanti è palese: da un lato la categoria degli anziani che non si preoccupa nemmeno dei calcinacci che cadono dalla facciata, tanto chi esce più di casa ormai? Dall’altro i nuovi e giovani proprietari che possono permettersi il lusso di ragionare con un orizzonte temporale superiore all’oggi. Da una parte chi vorrebbe pagare le spese condominiali dallo smartphone e dall’altra chi porta personalmente all’amministratore la mazzetta di contanti, ramini compresi.

L’amministratore ci osserva sornione da dietro quella che credo sia la scrivania della sua segretaria, vista la tenera zampina di animale disegnata su un post-it e appiccicata allo schermo del computer. E’ certo che ancora una volta avrà la meglio l’immobilità decisionale di questo assembramento di esseri umani che vivono nello stesso stabile. Per questo motivo, durante l’accesa discussione sulla condizione delle scale del palazzo, approviamo, all’oscuro della metà dei presenti, la richiesta di alzare di qualche centinaia di euro lo stipendio del custode, di cui non si può assolutamente negare la buona volontà e la dedizione a tenere insieme per quanto possibile i pezzi di un giardino che senza di lui sarebbe allo stato brado. Questo rapido colpo di mano portato avanti senza averne il numero legale da un piccolo gruppo di dissidenti mi fa sentire una sorta di Robin Hood al femminile, paladina dei più deboli in lotta contro i ricchi oppressori, mi sento fiera di aver fatto la mia piccola parte per dare dignità ad un lavoratore meritevole.

Toglimi una curiosità Marco” faccio all’amministratore mentre sto uscendo dalla stanza. “Quanto guadagna il portinaio all’anno? Gli abbiamo dato un aumento misero…” proseguo magnanima.

40 mila euro all’anno”.

Scusa? Puoi ripetere? Non sono sicura di aver capito bene.

QUARANTA. MILA. All’anno ovviamente

Mi sono riseduta. Ho pensato a quell’uomo che per sei ore al giorno, 6 giorni su 7, ritira i pacchi in un condominio dove con tutta probabilità ad arrivare sono solo ingiunzioni di pagamento e che pulisce, male, le scale. A giorni alterni. Ecco in quel momento ho smesso di sentirmi Robin Hood e ho guardato per qualche secondo Marco. Che mi ha sorriso sornione e mi ha detto ridendo: “Se vuoi mandare il curriculum, alla prossima riunione lo mettiamo all’ordine del giorno”.

Sai cosa pensavo? Che è tutto bello finché non ci conosciamo

Sono diversi mesi che non frequento un ragazzo e in tutta onestà penso che per il momento sia meglio così, data la mia comprovata capacità di invaghirmi di casi umani che fanno più danni di un elefante nel celebre negozio di cristalleria.

Non mi manca avere un compagno fisso, ho amici che considero famiglia, ho pure una famiglia a dire il vero, presente sebbene lontana, un lavoro che nonostante la pervasività mi piace, frequento un corso di scrittura, la palestra, lezioni di yoga (quando riesco), nella libreria ho decine di libri da leggere… e, ascoltate bene, tornare a casa la sera nella mia casa, prepararmi la cena, bere un bicchiere di vino rosso e scrivere, mi fa sentire viva.

Però il mio cervello, come quello di molte donne, ha spesso bisogno di un aggancio amoroso quindi, per evitare di rovistare troppo nel recente passato e diventare malinconica per storie che erano morte ancora prima di iniziare, ho sviluppato la capacità di innamorarmi di estranei che incrociano fugacemente la mia strada, per poi disinnamorarmene con altrettanta velocità.

Nella stragrande maggioranza dei casi, di questi ragazzi non ricordo nemmeno il viso, il mio sentimento dura giusto il tempo di girarmi verso la persona con cui sono, o di scrivere un messaggio ad un’amica. “Mi sono innamorata”. E poi basta. Il sapere di poter provare una sorta di emozione per qualcuno mi tranquillizza e tutto passa. Come ieri al supermercato: c’era un ragazzo ricciolino, non molto alto a dire il vero, occhi chiari, dai lineamenti mi ricordava vagamente l’architetto, zaino sportivo sulle spalle, cappellino Patagonia, faceva spesa bio da Natura Sì. Mi sono innamorata all’istante. Il tempo di pagare alla cassa ed era tutto finito. Un amore usa e getta, esclusivamente nella mia testa e quindi perfettamente sicuro.

In alcuni casi però questi effimeri innamoramenti mettono la punta del piede nella realtà e io resto sospesa a chiedermi se sia più interessante spalancare la porta oppure rimanere a fantasticare su quanto potrebbe essere bello se…

Ad esempio, ogni mattina quando scendo dal tram per andare al lavoro passo di fronte ad un’edicola. Mi piace vedere che hanno il numero del mese di Julia in esposizione, spesso mi sarei voluta fermare per acquistarlo ma a bloccarmi è il pensiero della collezione dei primi 100 numeri che per anni è rimasta a casa dei miei e poi… e poi chissà. Dicevo, in questa edicola lavorano diverse persone che si alternano nei giorni e negli orari. Nella mia testa sono una famiglia composta da mamma, papà e tre figli, due maschi e una femmina. I due figli maschi sono piuttosto carini, ma è il più giovane dei due ad incrociare il mio sguardo quasi tutte le mattine. All’inizio ci scambiavamo dei saltuari sorrisi, adesso addirittura ci salutiamo.

“Ciao”.

“Ciao”, rispondo io.

E proseguo per la mia strada.

Lui non è molto alto, ha lunghi capelli neri e grandi occhi scuri. Porta la barba, ma non quella da hipster. Insomma, ogni mattina lui rende il percorso tra casa e l’ufficio più piacevole e le mattine in cui non è di turno, un po’ ci rimango male. Ovviamente non avrò mai il coraggio di fermarmi a comprare, che ne so, il giornale, o l’ultimo numero di Julia. Tanta audacia rovinerebbe sicuramente la magia di un semplice sorriso mattutino.

C’è invece un’altra persona che sarei curiosa di rivedere, forse. Un uomo incrociato sul tram una mattina alle 8:30, quando ancora mi riusciva di prendere il tram così presto. Ricordo di aver scritto un messaggio a delle colleghe quella mattina: “Mi sono innamorata!”. Poi lui è sceso e addio. Fino ad un sabato mattina, nella mia palestra. Lui stava per iniziare un corso, qualcosa tipo Play Omnia, mentre io, destino avverso, avevo optato per Interval Training. Non che ci tenga a farmi vedere con la faccia distrutta dalla fatica, ma speravo di incrociarlo nelle settimane successive. Invece niente. Forse ha avuto per la palestra un innamoramento fugace.

Fino ad una domenica pomeriggio di fine estate. Ero sul tram, sempre lo stesso (prima o poi scriverò del mio rapporto con i tram di Milano, il 33 prima e il 3 poi hanno segnato gran parte delle mie esperienze milanesi). Stavo andando, insieme ad una bottiglia di Valpolicella Ripasso, a cena da amici e come sempre ascoltavo la musica negli AirPods con la testa appoggiata al finestrino, guardando distrattamente la strada sotto di me. Fino a che, all’altezza del Carrobbio, i miei occhi incrociano i suoi. Li incrociano e ci stanno agganciati. Ammetto di aver sentito una bella scossa, mi sono messa seduta dritta e, mentre il tram ripartiva verso via Torino, ho girato la testa indietro e guardando fuori dal finestrino l’ho visto che a sua volta si era girato a cercarmi. Quando i nostri sguardi si sono agganciati di nuovo, mi ha sorriso. E io ho sorriso a mia volta.

Da quel giorno ho provato più volte a prendere il tram delle 8:20, ma niente, nessuna pseudo-fantasia amorosa riesce a farmi uscire di casa in un qualsiasi orario diverso da “in ritardo”. Forse è pigrizia, o forse istinto di protezione. Cosa potrei fare se lo rivedessi? Fermarlo? Sorridergli? Parlargli? La mattina? Alle 8:30?? E poi, con tutta probabilità, sarà sposato, con figli e pure un golden retriever, che porta a correre in campagna durante i weekend, invece di chiudersi in palestra.

La scena che immagino sarebbe ben lontana dall’incontro tra Amelie e Nino, in sottofondo non ci sarebbe nessun “Comptine d’un autre été, l’après-midi” di Yann Tiersen ma solo lo sferragliare del tram e gente nervosa che deve correre in ufficio, esattamente come me. Ma chi lo sa, magari un giorno, uno di quelli in cui mi vesto carina, esco in orario, il tram mi aspetta alla fermata e tutto sembra girare bene, ecco magari quel giorno smetterò di imitare Amélie, che in fondo era solo una sociopatica, e riscoprirò, come ricorda Monsieur Dufayel nel film, di non avere affatto le ossa di vetro.

“Voilà, ma petite Amélie, vous n’avez pas des os en verre.

Vous pouvez vous cogner à la vie.

Si vous laissez passer cette chance, alors avec le temps, c’est votre cœur qui va devenir aussi sec et cassant que mon squelette.

Alors, allez y, nom d’un chien!”

Monsiuer Dufayel

3500 km di saggezza

Nel corso del mese di agosto ho viaggiato attraverso la Spagna con la mia amica e compagna di avventure Jessica, in un lungo roadtrip alla scoperta delle meraviglie dell’Andalusia, con le sue stupefacenti contaminazioni arabe e la non meno affascinante vita dei surfer.

In queste settimane in terra straniera ho capito diverse cose, le più frivole sono elencate qui sotto.

Già durante l’atterraggio all’aeroporto, dove Jessica mi avrebbe recuperato per partire in macchina, ho imparato la prima lezione: a Valencia qualsiasi stronzo possiede una casa con piscina. Dal finestrino dell’aereo si vedeva infatti una distesa a perdita d’occhio di rettangoli azzurri che si allungava per tutta la campagna. Ma la cosa meravigliosa che ho percepito è che possedere una piscina non è simbolo di spocchiosa ricchezza bensì un semplice prolungamento dell’attitudine a vivere più possibile insieme, che sia al fresco di un patio rivestito di colorate ceramiche o a bordo di qualche metro quadro di acqua utile a sopravvivere alle temperature feroci.

Dopo un paio di giorni passati a familiarizzare con la pigrizia vacanziera, immensamente facilitata dai ritmi spagnoli che ti portano a pranzare durante l’ora del tè e a cenare quando la app che monitora il sonno ti invita a chiudere gli occhi, siamo partite alla volta di Granada. Immerse nelle incredibili bellezze dello stile mudejar, che da solo dovrebbe far capire al mondo quanto le contaminazioni tra culture abbiano storicamente portato alla creazione di sublimi bellezze, abbiamo imparato la seconda lezione: per gli spagnoli, l’aglio sta bene su tutto. Un po’ come il nero, ma con conseguenze comprensibilmente più nefaste. E quando credi di essere riuscita a ordinare una pietanza scevra dal potente antibatterico, scopri che sono capaci di sminuzzarlo così finemente da farlo sembrare zucchero per il caffè. Conoscendo la mia propensione a cacciarmi in situazioni buffe, ringrazio chi mi ha convinto a preferire il caffè amaro.

Proseguendo qualche giorno più tardi verso Siviglia e ancora più avanti verso Conil de la Frontera, abbiamo metabolizzato (mai verbo fu più azzeccato) che quello che i primi giorni ci sembrava un delizioso sfizio, stava diventando un elemento preponderante della nostra dieta. La terza lezione di questo roadtrip è che gli andalusi friggono tutto, anche il tavolo e le sedie, se potessero farlo. Era impossibile fare un pasto senza assumere almeno un calamaretto rivestito di pastella e lanciato nell’olio bollente, dove venivano poi fritte anche le immancabili puntillitas, insieme alla tortillitas de camarones che tanto bene si accompagnano alla cerveza sulla spiaggia di El Palmar. Quando torno mi rimetto a dieta, promesso.

Questa predilezione per il fritto ci porta direttamente alla quarta lezione andalusa, e invito i milanesi business-oriented ad alzare le antenne. Gli spagnoli non sanno produrre dei tovagliolini che facciano il loro dovere. In pratica, dopo aver mangiato alcune manciate del delizioso sopracitato fritto, cerchi di ripulirti le mani dalla prova evidente della tua colpa distribuendo invece l’olio con perizia su tutta la superficie palmare e oltre. Con il duplice risultato di contribuire in maniera importante al disboscamento dell’Amazzonia e di rischiare un’ustione di primo grado non appena il sole ti sfiora la pelle.

Questo viaggio non ha però dispensato unicamente sprazzi di conoscenza della realtà spagnola, ma ha anche puntato i riflettori su alcune verità relative alla Francia e al suo popolo. Infatti, nel caso in cui i surfisti ispano- argentini non si fossero applicati abbastanza per farti sentire terribilmente bella, la soluzione è chiudere il roadtrip con qualche tappa francese, preferibilmente in Costa Azzurra, meglio ancora se a settembre. Mischiarsi ai corpi di facoltosi ultra-settantenni che si godono la pensione facendo la bella vita nel contesto della riviera francese è una soluzione pragmatica e alla portata di tutti per farti sentire giovane e davvero avvenente. E per riportarti più o meno bruscamente alla litigiosità che avevi lasciato alle spalle prima di partire da Milano.

Perché l’ultima lezione che ho imparato da questo meraviglioso viaggio è che non importa in quale parte del mondo ti trovi, se hai a che fare con un francese ti renderai sempre conto che farti girare il cazzo riesce loro terribilmente naturale.

Today has been cancelled, please go back to bed

Non so voi, ma io penso a cosa indossare di mattina mentre sono ancora a letto, in quella mezz’ora che intercorre tra il suono della sveglia e l’immancabile francesismo “merda, sono in ritardo”.

Mentre mi rotolo tra le coperte, scelgo se il mood della giornata mi porterà ad indossare un vestito odei pantaloni, i tacchi o delle scarpe basse. Alcune mattine questo meccanismo funziona alla perfezione, l’outfit si crea in un attimo e tutto fila liscio come l’olio. Ma ci sono altre mattine in cui la macchina si inceppa, alle volte già a partire dal mio cervello, altre volte perché, si sa, nella mia vita capitano molte cose buffe.

Quando il meccanismo si inceppa nel cervello, azzardo outfit che poi nella realtà sono delle schifezze assolute, quindi i cambi d’abito si sprecano che nemmeno alla notte degli Oscar. E finisco con l’uscire di casa vestita immancabilmente di nero, con addosso quasi sicuramente la stagione sbagliata.

Capita invece che qualche mattina sia il mondo a remare contro. E spesso capita di lunedì, esattamente come stamattina.

La prima sveglia, quella del telefono, è suonata alle 6:50. “Interrompi”.

La seconda, quella del comodino, ha squillato alle 7. “Ritarda di 8 minuti”. Ancora qualche attimo per riepilogare la scelta: pantalone blu, camicetta bianca, le scarpe nuove arrivate venerdì. ‘Magari metto anche la cintura bianca, non dovrebbe starci male.’ Dopo aver procrastinato per 3 volte l’obbligo inderogabile di alzarmi dal letto, affronto la luce del sole alzando la tapparella e mi butto sotto la doccia, mentre faccio bollire l’acqua per quella brodaglia che solo io oso chiamare caffè.

Mentre mangio i biscotti al cioccolato che la mia nutrizionista ha (quasi) approvato, cerco di dare una parvenza di ordine alla casa, nascondendo nel cesto dei panni da lavare i residui rimasti a terra dal weekend. Mi vesto, mi trucco con quel minimo sindacale di fondotinta e mascara che puntualmente nessuno nota e mi avvio verso l’armadio delle scarpe. Apro la scatola di quei gioiellini arrivati venerdì e indosso la scarpa sinistra. Mentre sto in equilibrio sul tacco, afferro l’altra scarpa e la infilo distrattamente al piede destro. E qui mi rendo conto che qualcosa non va. Osservo la scarpa per una decina di secondi buoni, cercando di capire cosa non andasse. Le avrò mica comprate troppo strette, di nuovo? Poi lentamente un pensiero prende forma nella mia testa, nonostante l’ora. Ci impiego altri 10 secondi, scatto una foto alle scarpe e la invio: “Sono due scarpe sinistre, vero Jess?”.

Appena mi arriva la conferma, maledico l’errore del negozio ma capisco di dover trovare una soluzione in fretta. Sono le 8:20 e dovrei uscire ADESSO.

Valuto per un secondo la possibilità di uscire con due scarpe sinistre ma la scarto velocemente. Mi è capitato, purtroppo non per eccesso di anticonformismo, di uscire di casa con due scarpe diverse tra loro, ma quella volta ciascun piede era almeno comodo nella forma a lui dedicata.

Ritorno in me, cambio camicia, cintura e indosso un paio di meravigliose scarpe rosse. Nuove anche loro, e vi prego di soprassedere sulle ben conosciute motivazioni dello shopping compulsivo.

Insomma mi ritrovo dopo pochi minuti a scendere le scale di casa e salutare il portinaio, che sta parlando con il nuovo vicino di casa seduto su un motorino.

“Dove posso parcheggiare il motorino in un posto sicuro?” chiede il vicino.

“Eh… sicuro”, ribatte Luciano sconsolato.

“Sarebbe bello sapere che c’è qualcosa di sicuro nella vita no?” continua, sorridendo, il giovane vicino.

E a questo punto, per qualche strano motivo, ritengo opportuno intromettermi.

“Ma c’è!” squittisco. “La morte. E le tasse”. Sorrido, ma in realtà è una paresi che deriva dalla consapevolezza di aver detto una stronzata. Accelero il passo, sono quasi certa che a questo punto nessuno voglia intavolare una conversazione con me. E poco dopo mi ritrovo a correre come ogni dannata mattina, nella speranza che questa volta il conducente del tram non mi chiuda le porte in faccia, aiutandomi a volare in ritardo verso quello che si prospettava un meraviglioso lunedì di lavoro.

Insiemi e sottoinsiemi

Recentemente ho provato a fare una stima del bacino di individui con cui potrei avere la possibilità di uscire, io single 37enne residente a Milano.

Con la mia testolina assolutamente non scientifica, ho preso l’insieme delle persone di sesso maschile e ho eliminato la quota di omosessuali, per ovvie ragioni. Ad occhio e croce l’insieme si è ridotto di quasi la metà.

Poi, per gusto e buongusto assolutamente personali, ho sottratto la categoria degli uomini sotto i 37 anni – older is better, per la sottoscritta.

Dopo questa prima scrematura, mi sono accorta che iniziavano i veri problemi. Perché a questo punto il terzo sottoinsieme da eliminare immediatamente era quello degli uomini sposati, operazione che riduce non di poco il numero di superstiti. Eliminando poi anche quelli fidanzati (lo so, sei in crisi con lei da anni, non ti capisce, oramai siete fratello e sorella, io sono davvero speciale blablabla….) la situazione rasenta la disperazione. Ricapitolando: uomo, eterosessuale, sopra i 37 anni, non sposato e non fidanzato. Peggio della particella di sodio dell’acqua Lete.

Ma non è finita qui, perché man mano che il tempo passa, sto aggiungendo delle micro-categorie trasversali di soggetti da non avvicinare.

Innanzitutto, sono da eliminare gli uomini separati con figli. Se siete mai uscite con un uomo che ha dei figli, sapete di cosa sto parlando. Per non parlare degli uomini che si sono riprodotti e hanno malauguratamente generato figlie femmine… vade retro. Oltre a gestire una ex compagna che rende loro la vita impossibile (probabilmente perché richiede un minimo di programmazione, cosa che agli uomini riesce più difficile che far passare un cammello dalla celeberrima cruna di un ago), sono incapaci di concepire di amare qualcuno che non sia la figlia, per cui ti tratteranno sempre come la terza in linea. Terza, se hanno rotto il cordone ombelicale con la madre, altrimenti retrocedi direttamente in quarta posizione.

Ma la categoria trasversale che ho introdotto più di recente è “l’architetto di Bergamo”. Già, perché è empiricamente testato dalla sottoscritta che l’architetto di Bergamo ha sulla medesima un fascino particolare. Innanzitutto, l’architetto di Bergamo è ai miei occhi sempre bello come Bradley Cooper. In secondo luogo, ha il livello di ritrosia perfetto per innescare il meccanismo “io ti capisco meglio di chiunque altro, non potrai non amarmi”. E invece.

E invece l’architetto di Bergamo, dopo una prima fase di romantici voli pindarici, si affloscia in banali cliché, fatti di sporadiche cene monoproteiche accompagnate da riso integrale, con annesso aggiornamento in materia di massa grassa corporea. E se ne va puntualmente senza lasciarmi nemmeno un valido consiglio sull’arredamento del mio salotto. Che io dico: se sono in grado di affrontare certe conversazioni è evidentemente perché ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a finire di sistemare casa, che da ormai quasi tre anni è un cantiere non risolto. Come la sottoscritta, sebbene io lo sia da molto più tempo.

È vero che poche settimane fa parlavamo di liberare i miei cassetti per fare spazio ai tuoi calzini di spugna Nike che avresti portato da me prima del nostro imminente matrimonio, ma a conti fatti mi sono resa conto che andava benissimo anche un prezzo agevolato sull’installazione dell’aria condizionata. La prospettiva di riuscire a dormire durante le infuocate notti di luglio, addirittura con un bel 30% di sconto, mi suonava decisamente migliore della minacciosa illusione che l’architetto di Bergamo diventasse il padre dei miei 4 figli, costretti poi a vivere nell’attico di una città con livelli di PM10 perennemente sopra i livelli di allarme.

Insomma, queste mie divagazioni matematiche (che dimostrano la teoria del mio prof. del liceo “Donatella è bravina, ma sua sorella è un’altra cosa” – cit.) mi confermano che anche l’architetto di Bergamo non lascia alcun segno apparente, al pari dell’avvocato di Roma, del nerd di Milano o del manager de “la città che non esiste”. Lascia solo un conto corrente decisamente più povero ma finalmente la decisione di installare l’aria condizionata in casa.

Che per fortuna potrà riscaldarmi nel corso della primavera più fredda degli ultimi vent’anni.

La seconda assemblea condominiale

La seconda assemblea condominiale della mia vita mi ha lasciato il pensiero fisso che queste occasioni siano un po’ come le riunioni di famiglia.

Ogni famiglia ha infatti un argomento tabù, di quelli che tutti sanno SAREBBE MEGLIO non toccare mai. Tutti lo sanno e ad ogni incontro speri in cuor tuo che finalmente si metta in pratica il tacito accordo di NON affrontare QUEL TEMA.

Ma arriva sempre il momento in cui qualcuno sottovaluta un commento o una battuta, e a quel punto si scatena l’inferno.

L’altra sera, dopo un’ora e mezza a spulciare tra spese di francobolli e riparazioni del citofono, mi sentivo quasi salva perché la riunione si stava svolgendo senza grossi sbandamenti.

Il ragazzo che durante il mio trasloco al terzo incontro mi aveva detto “allora è destino” spiegava con dovizia di particolari conto economico e stato patrimoniale alla nuova fidanzata bionda, che abbracciava e baciava con orgoglio ad intervalli regolari. Ho perso la mia occasione, destino crudele.

La mia dirimpettaia, quella che l’anno scorso mi aveva accolto con il “si, vedo che fai tutte cose”, è arrivata in ritardo e ha subito iniziato a polemizzare con il vicino, fratello di qualcuno che le deve qualcosa. Mi ha guardato storto, o forse soffro di manie di persecuzione, fatto sta che è un anno che alzo le tapparelle solo quando faccio cambiare aria alla casa. Si sarà offesa?

Spiccava invece per ars polemica una vecchia signora grassottella che contrastava qualsiasi proposta comportasse un esborso di denaro ma che ad un certo punto ha menzionato con leggerezza un “amico di amici” che sarebbe disposto a fare un lavoretto a QUELLO LÀ CHE NON PAGA da dieci anni. Non ho osato contraddirla, le ho sorriso e ho memorizzato il nome, che ho giusto in mente qualcuno a cui vorrei far passare un brutto quarto d’ora.

Nella variopinta accozzaglia di umanità che si era assembrata, spiccavano per silenziosità due uomini dai lineamenti che ricordavano quelli degli indiani d’America. Il primo dei due aveva capelli neri, lunghissimi e lisci, che chissà quale balsamo usa. L’altro, abbronzato, bassino e con un fisico asciutto, è uno scultore, in tutta la serata ha detto una sola cosa ma estremamente sensata e nella classifica dei miei preferiti ha surclassato il professore, che quest’anno ha mandato la moglie. E questo è stato il grosso errore.

LEI. Mamma di un numero imprecisato di bambini. Parte simpatica, dice che in casa ha freddo ma cucina arrosti e torte per tenere sempre acceso il forno. Ormai i bimbi sono grandicelli, certo le bici in cortile sono un po’ fastidiose perché loro non riescono a giocare ma si può trovare una soluzione. Sorride. I bambini sono grandicelli, ripete, e per fortuna la aiutano a salire le scale con la spesa, dice. Silenzio.

Come dicevo prima, anche per la grande famiglia di condòmini del mio stabile, c’è un argomento tabù, che è L’ASCENSORE. Chi frequenta casa mia lo sa, abito al terzo piano e, a causa dell’assenza di ascensore, ho visto trenta/quarantenni rischiare ad ogni gradino collassi ed embolie (il che la dice lunga sullo stato di salute delle persone che frequento, ma questa è un’altra storia).

Dicevo. La mamma pronuncia la parola fatidica, SCALE, e almeno 20 ultra settantenni d’istinto si risvegliano e si sistemano sulle loro sedie, pronti alla battaglia. “Eh già, le scale” dice la signora polemica. “Lo stabile con l’ascensore ci guadagnerebbe in valore”, aggiunge una voce. Da lì in avanti non si è capito più niente. Si erano formati capannelli di ingegneri della domenica che facevano brainstorming per creare opere da fare invidia ai grattacieli di Dubai, chi improvvisava preventivi basati sul nulla, chi calcolava tassi di finanziamento e quanto ci sarebbe tornato in rimborsi fiscali in 10 anni. Un condòmino un po’ pessimista si augurava di esserci ancora tra 10 anni.

Io nel frattempo avevo ricominciato a sgranocchiare la mia cena a base di pretzel croccanti: masticare mi tratteneva dall’esprimere, con la delicatezza che mi contraddistingue, la mia sincera opinione sui voli pindarici dei miei vicini di casa.

Ma in tutto questo trambusto, c’era una persona che manteneva un atteggiamento pacato, ascoltava, rispondeva, cercava di trovare un senso alla discussione: il papà carino, che ha fatto la magia. È riuscito con maestria a ricondurre il gregge in uno stato ordinato, ha con nonchalance cambiato tema, proponendo di non rimandare ancora di un anno la sostituzione dei citofoni e ha fatto approvare la proposta con larga maggioranza.

Bello e bravo. Per me è si, mozione accettata, ci vediamo il prossimo anno.